Intervista a Liliana Colanzi, di Olga Alessandra Barbato

Olga Alessandra Barbato ha tradotto nel 2017 Il nostro mondo morto, la raccolta di racconti con cui Liliana Colanzi è stata finalista al Premio Hispanoamericano de Cuento Gabriel García Márquez; ora le rivolge alcune domande sulla realtà boliviana, sui temi sviluppati nei racconti, su stereotipi e tradizioni letterarie.



Il titolo della raccolta, Il nostro mondo morto, coincide con quello di uno dei racconti. È stata una tua scelta, dettata dal fatto che si tratta del più emblematico degli otto? O, come io credo, riflette l’architettura generale dell’opera, e rimanda alla situazione degli ayoreo?
Ho scelto questo titolo perché il tema apocalittico è presente in diversi racconti (L’Onda, L’Occhio, Il nostro mondo morto e L’uccello) e poi perché possiede una forte risonanza simbolica essendo tratto da una canzone ayorea (il tema coloniale mi interessa ed è presente in quasi tutto il libro). Però l’ho scelto anche perché mi piace come suona!

In un’intervista dici che gli abusi che si sono compiuti nei confronti delle popolazioni indigene costituiscono lo sfondo dei tuoi racconti e non il loro argomento principale. Il tema fantastico e quello soprannaturale sono un modo per sfuggire allo stereotipo del racconto di denuncia sociale? Quanto ti consideri legata a una tradizione letteraria come per esempio il realismo magico?
La denuncia sociale è troppo facile e può facilmente ridursi a degli stereotipi: credo che la vera sfida sia raccontare una storia e lasciare che da questa trapelino le preoccupazioni politiche e sociali senza perdere il punto di vista di chi sta narrando. Al protagonista di Chaco, per esempio, non interessa per niente il destino dei mataco (anzi ne uccide uno), ma attraverso ciò che racconta si viene a sapere che sono stati cacciati dalle loro terre. Le motivazioni dell’adolescente, però, sono altre: vuole andare in città, lasciare il villaggio. La storia dei mataco appare nel racconto sotto forma di un fantasma fastidioso che si infila nella testa del ragazzo e che lui preferirebbe ignorare, però alla fine la voce finisce per impossessarsi di lui completamente. Il simbolo del fantasma mi sembra molto potente per parlare degli indigeni delle tierras bajas in Bolivia, le cui storie sono state cancellate attraverso il mito del mestizaje felice: il fantasma torna sempre a disturbare i vivi finché non gli si dà sepoltura appropriata. Nel caso della Bolivia, credo che il tema indigeno continuerà a perseguitarci finché non ci faremo carico dei crimini commessi contro queste popolazioni. In quanto al realismo magico, non mi sento legata a esso, mi interessa piuttosto l’elemento popolare come mezzo in grado di canalizzare di energie potentissime.

Il disordine, il sogno, l’incubo, l’alterazione della coscienza sono tutte tecniche utilizzate nei tuoi racconti per la creazione di un’altra realtà che è spesso perturbante. Ne Il nostro mondo morto citi Jaime Sáenz. La sua peculiarità è la produzione di mondi marginali, il superamento della realtà ordinaria per andare oltre, l’alterità. Che influenza ha avuto quest’autore nella tua scrittura? Che relazione hai con la sua opera?
Uno dei miei libri preferiti è la raccolta di poesie La noche, di Jaime Sáenz, nel quale la morte viene considerata come un’alterità che ci portiamo appresso, proprio come il corpo: Sáenz usa la via negativa dell’alcol per avvicinarsi al mistero, per comprendere il suo corpo attraverso l’annichilimento. Nonostante tutto, si tratta di una poesia luminosa: Sáenz abita sempre nel paradosso, nella cancellazione degli opposti.

In Alfredito, i racconti, le leggende e la cosmovisione della tata ayorea influenzano il modo di vedere il mondo della bambina protagonista. C’è qualcosa di autobiografico in questo? C’è stata una figura nella tua infanzia che ha contribuito in qualche modo a dare forma al tuo stile di scrittura? E, soprattutto, qualcuno di cultura diversa dalla tua, per esempio indigena, che ha risvegliato in te l’interesse verso l’universo di questi popoli?
La mia tata era la persona che giocava con me, che mi aiutava a fare i compiti, che mi raccontava storie che mi spaventavano e meravigliavano allo stesso tempo. Erano storie di campagna e il diavolo ne era spesso una figura prominente. Ricordo le ragazze delle pulizie, tutte provenienti dalla campagna e con cognomi indigeni, con le quali avevo più libertà di parlare di cose che mi interessavano e mi facevano paura – la morte, per esempio – che con la mia stessa famiglia. A queste donne, dimenticate da tutti, ho voluto rendere omaggio in Alfredito.

L’uccello finisce con una sorta di delirio onirico del medico. L’accumulazione di queste immagini fa riferimento alla realtà boliviana contemporanea. C’è un intento di denuncia? Per esempio, il nome della jetsetter è lo stesso di una deputata dell’attuale governo e c’è un frammento del discorso di dimissioni di Banzer. Che significato gli attribuisci?
L’uccello che appare alla fine del racconto è una specie di radio che sintonizza l’inconscio collettivo: l’aspirazione a vivere in condomini chiusi con spiagge artificiali e di volare a New York a fare shopping convivono con il fantasma della dittatura e dello sfruttamento indigeno. Il nome della deputata è stata una pura casualità, in realtà pensavo a una jetsetter boliviana che aveva una rubrica di moda in un giornale e che era sposata col figlio di un narcodittatore boliviano: i media commentavano sempre i suoi viaggi a New York e il suo stile nel vestire però non facevano mai riferimento alla sua relazione con la narcodittatura. Penso sempre a come la gente scelse Hugo Banzer, ex dittatore, per via democratica: la maniera in cui la storia si dimentica e si riscrive mi interessa molto.

Oggi vivi all’estero, negli Stati Uniti. Tuttavia, i temi di cui parli sono strettamente legati alla realtà boliviana nella quale in questo momento si stanno producendo molti cambiamenti soprattutto in relazione alla situazione indigena. Consideri il governo di Evo Morales come una rivoluzione in questo senso? Nutri speranza nel futuro del tuo paese? In qualunque parte del mondo deciderai di vivere, credi che continuerai a scrivere della Bolivia?
Il governo di Evo Morales senza dubbio è stato rivoluzionario e ha portato grandi cambiamenti sociali, come la riduzione della povertà, la ridistribuzione della ricchezza e il riconoscimento del mondo indigeno da parte dello stato. Tuttavia, col passare degli anni, il progetto ideologico del partito di Evo Morales è andato sfumandosi e adesso non si sa più bene chi è. Sarei più speranzosa se ci fossero indizi che Evo Morales darà spazio a nuovi leader all’interno del suo partito, ma il referendum del 2016 e le sue dichiarazioni successive fanno passare il messaggio che il suo obiettivo principale è quello di rimanere indefinitamente al potere.

Mi affascina moltissimo la letteratura sudamericana, tra i miei libri preferiti molti appartengono a questa realtà. Allo stesso tempo, sono rimasta molto sorpresa quando mi sono resa conto di quanto poco diffusa e conosciuta sia la letteratura boliviana in Europa. Tu, invece, che relazione hai con la letteratura europea? Ci sono autori che ti piacciono particolarmente?
Sono cresciuta leggendo Lewis Carroll, Jane Austen, R.L. Stevenson, le sorelle Brontë… Tra gli europei dell’Est, mi piacciono moltissimo Mircea Cărtărescu e Agota Kristof. Tra gli italiani, invece, adoro Natalia Ginzburg.
[Traduzione di Olga Alessandra Barbato]

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