Appunti su Jesús Moncada

A sedici anni dalla morte di Jesús Moncada, autore del magistrale Il testamento dei fiumi, pubblichiamo, nella traduzione di Gaia Biffi, l’intenso ritratto che ne fa lo scrittore Daniel Gascón per Letras Libres.



Parlare di Jesús Moncada mi emoziona, e parlare di Jesús Moncada in un paese vicino all’Ebro (nonostante i danni causati dalle ultime piene) mi emoziona ancora di più: in primo luogo perché Moncada è nato a Mequinensa, e il fiume compare in tutte le sue opere, e poche persone hanno dedicato tante pagine, o pagine tanto potenti, alla vita fluviale della Spagna. E in secondo luogo perché Jesús Moncada è stato un grande scrittore, con libri molto divertenti e molto tristi, capace di inventare personaggi indimenticabili. È un autore di prestigio. Camí de sirga (Il testamento dei fiumi, gran vía 2014, n.d.r.), probabilmente la sua opera più emblematica, è un romanzo tradotto in più di una dozzina di lingue, dal castigliano all’aragonese, dal cinese al vietnamita: è una delle opere in lingua catalana di maggior successo internazionale. Oltretutto, nel 1993 è stato scelto come il miglior romanzo in lingua catalana degli ultimi dieci anni e, nel 2005, un’inchiesta del supplemento culturale di Heraldo de Aragón Artes & Letras lo indicava come la miglior opera aragonese di narrativa degli ultimi tre decenni. Moncada ha anche ricevuto, ad esempio, la Medalla de Oro de Isabel de Portugal della Diputación di Saragozza e il Premio de las Letras Aragonesas. Ma, allo stesso tempo, è stato un uomo singolare che, quando ha avuto la possibilità di vivere delle sue creazioni, ha preferito scrivere libri secondo i suoi ritmi e vivere di altro. Ma sapeva anche che questa integrità era una scelta morale e non letteraria, che un romanzo a cui si lavora per vent’anni non è migliore di uno che ti costa un mese.
Jesús Moncada è stato un grande scrittore aragonese, nato in provincia di Saragozza, e che ha scritto la sua intera opera in catalano. I suoi libri possono essere letti in catalano e in castigliano (come ho detto, possono essere letti anche in cinese o in vietnamita o in francese: Les bateliers de l’Ebre). La casa editrice La Magrana ha pubblicato in catalano tutte le sue opere, eccetto la raccolta di articoli Cabories estivals (2003). Anagrama ha pubblicato la traduzione in castigliano dei suoi tre romanzi, Camí de sirga (1988), La galeria de les estàtues (1991) e Estremida memòria (1996); e Xordica ha tradotto i suoi tre libri di racconti, Històries de la mà esquerra (1981), El cafè de la granota (1985), e Calaveres atònites (1999). Sono queste le edizioni che ho maneggiato. Chi non avesse letto Moncada, scoprirà uno scrittore davvero sorprendente: quasi tutti i suoi testi sono ambientati nella Mequinensa vecchia, tra barche e pescatori, e mescolano, da un lato, la tradizione orale, le quotidiane leggende dei paesi (un tempo quasi continuo, un presente perpetuo) con una prospettiva storica; il gusto di parlare della gente che frequenta i cafè, delle puttane e delle beate e dei guardias civiles con una grande ambizione letteraria: Jesús Moncada voleva raccogliere questi frammenti di vita esuberante e assurda e edificarci un mondo letterario.

La vita di Moncada
Non l’ho mai conosciuto, e mi fa molta rabbia. Mio padre ha i suoi libri con la dedica: nell’edizione di Anagrama di Camí de sirga, il suo romanzo più emblematico, si vede un disegno del “Coccodrillo titolare dell’Ebro”.
Moncada è nato a Mequinensa il 1 dicembre 1941 ed è morto di cancro a Barcellona il 13 giugno 2005. La Mequinensa di Monacada è quella vecchia, il paese che c’era prima di essere inondato dalla diga di Riba-roja costruita tra il 1957 e il 1964. Quel paese è importante perché si trasformerà nello spazio principale delle sue opere di narrativa, ed è un luogo davvero singolare.
Prima di tutto, c’è il fiume. Moncada parlava del fiume nelle sue interviste: “L’Ebro fa parte della mia vita.  A Mequinensa la popolazione viveva con l’Ebro. Il fiume attraversava il paese e l’acqua veniva usata per tutto: remare, navigare, lavare. L’intera vita era legata al fiume, che cresceva e bramiva, e questo faceva impressione. Era come incastonato nella valle. Mequinensa era un paese esteso che si allungava giù per la pianura. Si poteva quasi dire che il paese viveva nell’Ebro”. Il fiume, che può essere terribile, era anche una via di comunicazione e un modo di vivere.
Come se non bastasse, Mequinensa si trovava nel punto di convergenza tra il Segre e l’Ebro, e aveva un porto. Da lì partivano i leuti che trasportavano lignite dalle miniere; tornavano carichi con i prodotti del Delta: arance, riso, ceramica, sapone, sale… Camí de sirga fa riferimento proprio a questo: ai percorsi che ci sono sulla riva per favorire l’avanzare delle imbarcazioni. Mequinensa, dunque, era una piccola città portuaria: il mondo che Moncada ricrea (con la memoria e con la letteratura) non è un mondo rurale e bucolico, ma una piccola città di passaggio, industriale e commerciale. Moncada è un pittore di affreschi e moltitudini, ma non è un paesaggista: gli interessa vedere gli uomini nel paesaggio, ciò che fanno con le mani, le statue romane che compaiono nell’Ebro: una delle sue tematiche è la trasformazione della natura a causa dell’uomo, non il mondo selvaggio. Ma ciò che ci interessa oggi non è la storia, l’ecologia o l’antropologia, ma lo sguardo di Moncada, che sapeva che nei leuti che andavano su per il fiume, oltre al sapone o al sale, c’erano vedette francesi con corpi che provocavano tachicardia, fuggitivi innamorati ed eruditi disorientati.
Mequinensa ha avuto la propria epoca di splendore, ad esempio, con la scarsità di lignite durante la Prima guerra mondiale. E ha vissuto anche momenti terribili, come la guerra civile o l’inondazione: il passaggio a un paese totalmente diverso. Moncada parla di un mondo perduto, un mondo che aveva un qualcosa di tragico, perché sapeva che c’era una data di scadenza. Ma la costruzione del bacino idrico e lo sfollamento del paese si sono prolungati per molto tempo. E sapete già che se una tragedia dura a lungo si può trasformare in una commedia.
E questo lo sapeva perfettamente anche Moncada. In Històries de la mà esquerra c’è il racconto “Nit d’amor del coix Silveri”. Silveri, padre di famiglia, viene a sapere che guadagnerà cinquantamila pesetas per ogni famigliare sfollato. All’epoca erano un bel po’ di soldi. Ciò che lo sorprende di più è che guadagnerà grazie a suo suocero, che ha sempre detestato. Mentre torna a casa, inizia a preoccuparsi: e se muore? Ma, nel frattempo, gli viene un’idea geniale: hanno due anni per andarsene. In due anni hanno tempo in abbondanza per fare un figlio, un figlio che arriverà, ovviamente, con del pane sottobraccio. E quella notte, mentre la poveretta affronta gli impeti del marito, più con rassegnazione che con allegria, Silveri sussurra alla moglie: “Saranno cinquantamila pesetas… cinquantamila pesetas”.
Moncada ha affrontato i primi anni di studio nel suo paese natale: ha dato l’esame da privatista a Lleida e, nel momento in cui il professore ha pensato che non avevano più molto da insegnargli, è partito per Saragozza. Ha studiato presso il collegio Santo Tomás de Aquino: “Là” ha dichiarato Moncada durante un’intervista con Antón Castro, “ho conosciuto tutti i Labordetas. Era un collegio molto aperto e devo dire che sono contento di esserci andato perché, nonostante avesse alcuni difetti tipici di quell’epoca, era un collegio secolare e laico dove non c’era nemmeno una cappella. C’era un minimo di coeducazione e, soprattutto, si sperimentava una grande fascinazione per la letteratura”, raccontava Moncada, che è stato allievo del poeta Rosendo Tello e che ricordava che Miguel Labordeta, il fratello di José Antonio, gli aveva regalato Memorie d’infanzia e gioventù di Ramón y Cajal.
La Saragozza che ha conosciuto Moncada negli anni Cinquanta doveva essere un tantino desolante. Una città provinciale e piatta, molto diversa da quella attuale. In La galeria de les estàtues, Moncada inventa Torrelloba, una città che ha qualcosa a che vedere con Saragozza: anche se ci sono alcune scappatoie e si possono avere fidanzate e persino qualche amico, è la morte. Moncada ha sempre negato che Torrelloba ‒ con la basilica, il fiume Ebro, i quartieri riconoscibili ‒ fosse una Saragozza mascherata. In ogni caso, Moncada ha studiato per diventare insegnante nella capitale dell’Aragona, dove ha svolto anche una parte del servizio militare, dove ha avuto il suo primo gruppo letterario vincolato a Manuel Berdún Torres e alla casa editrice Coso Aragonés del Ingenio e dove ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie. Dopodiché Moncada è tornato nel suo paese a dare lezioni.
Nel 1964, seguendo i consigli dello storico e romanziere mezquinesiano Edmón Vallès, si è trasferito a Barcellona, dove ha vissuto fino alla morte. È stato allora che ha scelto il catalano, la sua lingua materna, come lingua letteraria.
Moncada ha iniziato a lavorare nella casa editrice Montaner & Simón, e ci è rimasto per tredici anni. Lì ha incontrato lo straordinario autore di racconti Pere Calders, che Moncada considera “uno dei grandi autori di racconti della letteratura del Ventesimo secolo”: sarà una figura essenziale. Quando venne a sapere che Moncada scriveva, Calders gli chiese di mostrargli qualcosa. Moncada disse di non avere pronto nulla, ma che avrebbe potuto scrivere qualcosa perché gli desse un’occhiata. Calders finirà per scrivere il prologo di Histories de la má esquerra, pubblicato prima nel 1973 e, successivamente, nel 1981 in versione ampliata. Nel suo prologo, Calders tratteggia uno splendido ritratto di Moncada:
“Ho conosciuto Jesús Moncada quando, appena arrivato dalla sua Mequinensa natale, ha iniziato a lavorare nella stessa azienda in cui lavoravo io. Moncada risentiva ancora del cambiamento geografico e amava presentarsi come un giovane barbaro, con una punta di ferocia, come se, attraverso le parole, volesse accentuare la villosità del suo viso: una frondosa barba nera con tanto di baffi abbinati. Nei modi, Moncada sembrava voler ribadire la prima impressione che faceva, affrontando i discorsi in maniera diretta e con un atteggiamento apparentemente brusco che rifuggiva dai giri di parole. Nonostante ciò, non ci ho messo molto a scoprire che quel giovane della frangia catalana d’Aragona non sarebbe mai riuscito a dare di sé un’immagine di barbarie, anzi, tutto il contrario. Nella sua vita quotidiana, ricorda piuttosto il tipico cittadino inglese. Fuma la pipa a un orario rigorosamente prestabilito (mai prima!) e sceglie la miscela di tabacco con estrema cura; non fuma la prima che trova. È un fanatico del tè, ma non di uno qualunque, bensì di certe marche e provenienze, che, alle volte, va a comprare molto lontano rispetto a dove vive. E pianifica il suo tempo senza lasciare nemmeno un’ora al caso; è un uomo che prende impegni e li rispetta puntualmente, secondo lo stile di colui che, in altri tempi, si definiva “un signore” e che ora è in via d’estinzione. Ma, se pensassimo di aver completato il suo ritratto con questi dettagli, sbaglieremmo, perché Jesús Moncada è una persona di grande entusiasmo, un appassionato. Non trascura niente e si interessa vivamente di tutto. Dipinge, disegna e scrive, senza prendere alla leggera nessuna di queste tre cose, ma mettendoci tutto sé stesso”.

Moncada si rese conto di non poter vivere dei suoi testi e dei suoi quadri, come aveva sognato. Per tutto il resto della sua vita, si è dedicato a mansioni editoriali. Ha tradotto dall’inglese, dal francese e dal castigliano al catalano; ha riscritto opere di Jules Verne, Guillaume Apollinaire o Boris Vian, e nei suoi ultimi anni, ha dedicato molto impegno a una traduzione di Il conte di Montecristo di Alexandre Dumás, che considerava “il miglior feuilleton della storia”. Ma ha tradotto anche molti romanzi erotici e pornografici, che spesso firmava con pseudonimi come Cornelius Pi, Maximus Mínimo. Per Moncada, la traduzione era un lavoro secondario che gli consentiva di guadagnarsi da vivere: a partire da Camí de sirga, Moncada avrebbe potuto vivere di premi fatti ad hoc, ma ha preferito continuare a tradurre, un lavoro che gli dava la libertà di lavorare ai romanzi a modo suo e che lo faceva migliorare come scrittore. Moncada ha dichiarato: “La traduzione è molto utile per la mia letteratura. Io sono un instancabile investigatore del linguaggio e in questo modo acquisisco vocabolario, sfumature, realizzo una discreta creazione del linguaggio”.
In un’altra occasione, Moncada ha detto di cucinare i suoi libri a fuoco lento. E questo mi pare un buon appiglio, come qualunque altro, per cambiare argomento e iniziare a parlare dei libri che ha scritto.

I libri di Moncada

Moncada ha iniziato pubblicando racconti. I romanzi sono lenti, ironici, ambiziosi. I racconti sono più semplici e spontanei, di un umorismo selvaggio che ride delle storie quotidiane. Molti dei racconti di Moncada sono monologhi: spesso un personaggio di Mequinensa racconta una storia e, mentre lo fa, ci rendiamo conto che sua moglie lo tradisce e lui non lo sa, che è un eroe o uno matto da legare.
Il primo libro di Moncada è la raccolta di racconti Històries de la mà esquerra, apparsa nel 1973 e, successivamente, nel 1981 in versione ampliata. La casa editrice Xordica ne ha pubblicato una traduzione castigliana nel 1996. È un libro di narrazioni brevi e, rispetto agli altri testi di Moncada, presenta una particolarità: ci sono due scenari, Mequinensa e Barcellona. (Moncada ha vissuto a Barcellona per quarant’anni, ma ha scritto poco su questa città; quando è morto, stava preparando un romanzo sulla casa editrice Montaner & Simón). In alcuni di questi racconti compaiono tecniche narrative che diventeranno poi caratteristiche di Moncada.
Uno dei miei racconti preferiti di questo libro è “L’estremidora confessió de Joe Galàxia (Història de fulletó)”. Un artista circense è in punto di morte e scrive una lettera a una vedova che per anni riceverà denaro per mano di un avvocato che non spreca nulla: “Il signor Celdoni Mansanet è la quint’essenza della gente del mestiere; ha una fisionomia e un aspetto così peculiari, un equilibrio così sottile tra l’inquisitore pazzo, il sadico meticoloso, il canonico lussurioso e il ranocchio beatifico, che, anche se uscisse di casa travestito da poliziotto, la gente lo fermerebbe per strada per chiedergli atti, contratti, udienze e testamenti”. Adesso il nostro artista, Joe Galaxia, le racconta la verità: lui e sua moglie facevano il numero della donna cannone. Nel momento in cui viene a sapere che la moglie, la Donna Obice, lo tradisce (per giunta con due nani del circo), l’uomo prende una decisione: mettere più polvere nel cannone. Però Marieta, la Donna Obice, cade su un venditore di filati, il marito della signora a cui è destinata la lettera.
Il successivo libro di Moncada, El cafè de la granota, segna un vero salto qualitativo. È un volume molto più unitario, un libro che inventa un mondo. I quattordici racconti ruotano intorno a un cafè di Mequinensa e ai classici rituali della vita cittadina: i funerali, le partite di calcio. Emergono personaggi che appariranno in altre opere di Moncada, come il farmacista Honorat del Rom. Un personaggio secondario di un libro o di un racconto può diventare il protagonista di un’altra storia, e questo trasmette una sensazione di continuità, del fatto che il libro fa riferimento a un mondo che esiste.
El cafè de la granota si legge con grande facilità: questo si può fare solo quando leggiamo un autore abile, che conosce molto bene il proprio mestiere. Moncada si inventa voci, modi di narrare adeguati al personaggio che racconta la storia. I suoi racconti ricordano molto il primo Anton Čechov, quello delle storie umoristiche, Pere Calders, ma anche il vitalismo di Bohumil Hrabal, e, per la capacità di mettersi nei panni di narratori molto diversi, i racconti di Faulkner o di Ring Lardner, uno scrittore statunitense che parlava di piccole città e personaggi strambi.
In El cafè de la granota ci sono monologhi e lettere di personaggi che chiedono qualcosa o fanno una confessione e, dall’altra parte, ci sono aneddoti più o meno mitici e assurdi raccolti dal cronista della cittadina di Mequinensa: molte delle storie sono racconti reinventati e ricreati diverse volte dalla memoria della cittadina. El cafè de la granota è un libro pieno forza e vitalità. E di un umorismo che fa perno su cose che di solito vengono prese seriamente, come il sesso e la morte. È una risata liberatoria che impregna ogni cosa: ho un amico che dice che gli aragonesi sono surrealisti senza saperlo, e questo surrealismo inconscio e quotidiano è presente in El cafè de la granota.
C’è un racconto in cui un cittadino scrive al direttore della prigione di Lleida: un ragazzo del posto vive a casa sua, è un delinquente per vocazione ma è molto sfortunato, e l’uomo chiede al direttore di “ospitarlo in prigione ‒ dove si mangia in quattro si mangia anche in cinque ‒ il tempo necessario per fargli capire che tipo di delinquenza gli piace di più”. Ma, oltretutto, veniamo a sapere di cose che hanno a che fare con la vita coniugale dell’uomo. Uno dei miei racconti preferiti è “Futblol de ribera”, che parla del campo da calcio di Mequinensa.
Moncada raccontava: “Il campo da calcio si trovava in un angolo del paese. La porta era a tre o quattro metri dal fiume Segre e una delle linee laterali a sei o sette dall’Ebro, per questo c’era una persona incaricata di raccogliere i palloni che aveva una specie di retino per farfalle, con il manico più lungo, per raccogliere i palloni. Se finivano nel fiume e non si potevano ripescare, bisognava prendere la barca. Perciò c’erano sempre molti palloni a Menquinensa. Il giorno dell’inondazione c’ero io al campo. Il Segre, che ora è un fiume addormentato, aveva delle piene repentine. Ha iniziato a crescere e crescere e faceva da barriera alle acque dell’Ebro, e questo alla fine, trovandosi con questa sorta di ostacolo, ha iniziato a esondare e ha inondato il campo, ma la partita non è stata interrotta. Quella sera si è giocato con mezzo palmo d’acqua”.
C’è molto umorismo nero che affronta la morte come un fatto naturale. In un altro dei racconti una donna odia un albero piantato in giardino dal marito. Quando il marito muore, lo taglia subito. Dopodiché, ovviamente, ha molta paura di morire: di sicuro, suo marito glielo rinfaccerà nell’aldilà. In “Informe provisional sobre la correguda d’Elies” la gente ricorda una gara leggendaria: un uomo corre come un folle per tutto il paese, prima che parta il pullman per Lleida. Il medico è stato a casa sua e gli ha detto che sua moglie morirà e dunque non è necessario che le porti le medicine che gli erano state commissionate. “Nel bel mezzo di una disperazione che puoi ben immaginare, mi sono ricordato delle medicine”.
Una delle tematiche ricorrenti di Moncada è il lavoro: la sua intera opera è piena di gente che si diverte facendo bene il proprio lavoro. Gli archetipi sono i barcaioli dell’Ebro che guidano i leuti. Un ponte ha impedito la navigazione e ha cambiato la vita di molte persone: questo è uno dei temi di Camí de sirga, ma uno dei racconti di El cafè de la granota, “Senyora Mort, Carta de Miquel Garrigues”, lo affronta in modo diverso: qui, Miquel Garrigues, dei Garrigues della strada nuova, scrive una lettera alla Morte. Anni prima, Garrigues aveva smesso di esercitare la professione di navigatore che lo rendeva felice. Ma ha visto un quadro dove si vede Caronte che trasporta i morti lungo il fiume dell’Ade. Miquel Garrigues dice, prima di lasciare la lettera in una busta per quando morirà: “Non è che io voglia rubare la piazza al signor Caronte, ma l’ho visto così acciaccato e vecchio nel quadro del farmacista che credo non sarebbe male se qualcuno lo sostituisse ogni tanto, anche solo nei giorni festivi. In questo modo lui si riposerebbe e io potrei recuperare nell’altro mondo il lavoro che ho perso in questo. Le chiedo solo, signora, di mettermi alla prova; non rimarrà delusa”.

Romanzi di un mondo scomparso

In seguito, Jesús Moncada ha pubblicato tre romanzi. Il primo di essi, Camí de sirga, è stato un successo brutale e insperato (tradotto in molte lingue, ha ricevuto il Premio Nacional), che ha colto di sorpresa la casa editrice e Moncada, insieme all’establishment della letteratura catalana.
Ma Moncada ha preparato il libro per molto tempo: “Quando ho iniziato a scrivere Camí de sirga stavo raccogliendo materiale da tanto. Ci stavo già lavorando prima di arrivare a Barcellona e, più avanti, una volta stabilitomi qui, ogni volta che andavo a Mequinensa cercavo cose, parlavo con i famigliari che avevano navigato lungo il fiume, con i padroni, con tutti quanti… E così ho raccolto ciò che sta alla base del romanzo. Bisogna fare una distinzione, perché ad alcuni di noi mezquinesiani risulta difficile separare il romanzo dalla storia, anche se, alle volte, più di una persona si sorprenderebbe se conoscesse la verità storica, che supera la finzione”.
In qualche modo, questo romanzo strano e ammirevole appartiene al genere dei grandi romanzi o dei romanzi totali, come Cent’anni di solitudine, Conversazione nella Cattedrale o Il regno di questo mondo. Ha a che vedere con i romanzi del Diciannovesimo secolo e parte da un impulso balzachiano: racconta un mondo e un luogo: è il romanzo su Mequinensa e sulla distruzione di Mequinensa, sui leuti e i naviganti, i borghesi e i pescatori, il fiume e i bacini idrici, le miniere e i bordelli. I personaggi affrontano la rovina del paese e, mediante una serie di flashback, ne ricordano gli ultimi centocinquant’anni, dalla guerra francese fino allo sfollamento e alla costruzione di un paese nuovo. In questo affresco si parla di come la storia con la S maiuscola colpisca Mequinensa: il benessere economico dato dalla Prima guerra mondiale, i ponti e le guerre. Ma presenta anche molte storie piccole, romanzi brevi, di amore e sesso, con un tono un po’ ironico e distaccato. Camí de sirga parla di molti personaggi meravigliosi (Arquimedes Quintana, il vecchio demonio del fiume, Aleix de Sagarra, Carlota de Torres).
È un libro sul mito e sulla memoria, e sulla gente che la vita quotidiana ha condannato ad avere solo il mito e la memoria. È un romanzo lento e ben scritto. Una delle cose splendide è che la narrazione, che circola sul fiume, ha una struttura a meandri, riprende scene e personaggi dopo vent’anni, e anche la sintassi ha un qualcosa di simile al fiume, di frasi sinuose piene di informazioni e di garbo. È un romanzo divertente ma tristissimo: “Nessuno sospettava che la maggior parte di loro sarebbe invecchiata, che molti sarebbero morti con ancora quel tarlo nell’anima; nessuno sospettava che lo attendevano tredici anni di lotta incerta, in quella trappola per topi”.
Il romanzo successivo di Jesús Moncada è La galeria de les estàtues, che ha due scenari principali: da un lato, la città immaginaria di Torrelloba, e dall’altro, Mequinensa. Il romanzo inizia il 27 novembre 1957, con queste parole: “Nell’illustre, cattolica e quasi immortale città di Torrelloba, il sole sorgeva a est”. Ma quando il governatore inaugura un busto del generale Franco, evoca l’immagine del sole nascente e distende il braccio verso ovest. I torrellobini si domandano, giustamente: “Il nuovo regime ha cambiato a tal punto le cose che si sono modificate anche le leggi astronomiche?”
La guerra di Ifni è lo sfondo di un racconto ironico e poliziesco. Uno dei protagonisti è Dalmau de Vallmajor, che studia da insegnante a Torrelloba e che ha per amico Semola, figlio dei Ribermortes, una famiglia arricchitasi producendo pasta (si chiamano tutti così: maccheroni Venceslao, cannelloni Margarita, crema di riso Hermenegildo, eccetera). Il padre di Dalmau è scomparso in guerra: la parte ambientata a Mequinensa (di fatto, tutto il romanzo) parla molto della guerra civile e delle sue conseguenze, della politicizzazione e delle rappresaglie. Parla della sofferenza degli sconfitti e della casualità che, in qualche occasione, ti collocava da un lato o dall’altro, a volte contro le tue stesse convinzioni, e ritratta anche la cattiva coscienza di alcuni tra coloro che avevano vinto la guerra.
Di fronte a questa prospettiva, piena di segreti famigliari e di persone scomparse nella voragine, c’è una cronaca alquanto noir e costumbrista di Torrelloba, che mostra poliziotti e incontri di lotta libera, prelati e professori universitari, esercizi spirituali e alunni che spiano altri compagni. La città sembra essere retta dalla chiesa (e il vescovo innalza una preghiera perché la squadra locale sconfigga il Barça) e dai militari. Tuttavia, c’è anche, per esempio, una prostituta chiamata La Bastiglia: un cliente le ha dato questo nome quando è venuto a sapere che la ragazza aveva perso la verginità il 14 luglio. C’è un’altra storia laterale: una comitiva di ciechi che Franco porta a Lourdes perché chiedano un miracolo. Questo mostra, nuovamente, l’irrazionalità del regime (più o meno come le bombe della basilica di Torrelloba, che non sono mai esplose), ma è anche una metafora della cecità che attanaglia il paese e i protagonisti del romanzo, che ignorano tutto su sé stessi.
Moncada riesce a intercalare molto bene le due trame e il romanzo è ben costruito. La strategia di iniziare in medias res, tornare indietro per un momento e poi proseguire, si ripete frequentemente per tutto il libro. L’autore maneggia bene questo meccanismo che serve per aumentare la suspense.
La galeria de les estàtues presenta momenti molto piacevoli. Include alcune storie emozionanti e personaggi indimenticabili, come Cebría o Agnès, la madre di Dalmau, e Bernat, e lo zio tenente dei nacionales che difende i diritti degli sconfitti del paese dopo la guerra. Ma, probabilmente, la storia di Dalmau, con la vita studentesca di Torrelloba, con una città alquanto fantasmagorica e con gli amori, non è stata sfruttata a dovere. La galeria de les estàtues è un testo molto ben fatto, ma non è il libro eccezionale che Moncada avrebbe potuto scrivere.
L’ultimo romanzo che Moncada ha avuto la possibilità di concludere è Estremida memòria. In questo libro Moncada fa ritorno al mondo di Mequinensa e ricrea un fatto reale di brigantaggio. Nel 1877, sulla strada da Mequinensa a Caspe, vennero assaliti l’esattore delle imposte, alcuni guardias civiles e un mulattiere. Quattro uomini furono arrestati. Uno di loro cercò di fuggire, o così dissero; lo uccisero lungo la strada. Fu convocato un tribunale militare non molto giusto: uno dei rapinatori, ad esempio, aveva partecipato al crimine sotto minaccia di morte, non aveva ucciso nessuno e aveva cercato di salvare alcune delle vittime. Ma il castigo fu lo stesso per tutti: la fucilazione. L’esecuzione si svolse a Mequinensa, perché servisse da monito. Uno scrivano del tribunale di Caspe, Agustí Montolí viaggiò fino a Mequinensa poco prima dell’esecuzione per cercare di evitarla. L’episodio è stato falsificato dalle cronache ufficiali e distorto dal tempo e dai racconti, ma Moncada ha avuto accesso ai documenti di Montolí che gli sono serviti per scrivere Estremida memòria.
Estremida memòria, come tutti i romanzi di Moncada, è un’opera corale. È fatta di capitoli molto brevi; ciascuno mostra un personaggio. Inizia con un viaggio durante la notte: lo scrivano, malato, si dirige verso Mequinensa. E successivamente vediamo gli effetti degli episodi su altre persone: le sorelle, le mogli dei morti e dei criminali.
C’è una molteplicità di punti di vista, ma anche uno sforzo di chiarezza: ogni sei o sette capitoli c’è una lettera di un editore e amico di Moncada, Arnau, che corregge l’autore e mette in ordine la trama. È un gioco letterario che funziona efficacemente. È anche l’unico romanzo di Moncada che ha un glossario di personaggi, con brevi biografie, spesso esilaranti.
Estremida memòria è un romanzo appassionante strutturato in quattro parti e un epilogo: ci si affeziona subito ai personaggi perché Moncada riesce ad avere comprensione per tutti, tutti hanno una punta di umanità. Ad esempio, c’è una splendida storia d’amore tra Amalia e un tipo di Lleida.
In Estremida memòria c’è il mondo delle tertulias e degli intrighi politici: la terza guerra carlista era terminata da poco e il Diciannovesimo secolo è stato molto convulso in Spagna. Naturalmente, ci sono anche i naviganti: mentre un leuto la trasporta lungo l’Ebro, Amalia ascolta gli spari del plotone d’esecuzione che uccide i suoi famigliari. È anche un romanzo sulla giustizia e sull’impegno. Poco tempo fa, lo scrittore inglese Julian Barnes ha pubblicato un romanzo su Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, che difese un innocente accusato ingiustamente. È un caso Dreyfus. E questo libro ha qualcosa di tutto questo, di una persona che vuole difendere la legalità, che lotta per proteggere i diritti degli altri. Estremida memòria ha un che di western e di romance de ciego, di film o di retablo che mostra molti personaggi in modo nitido, ma ha anche un’emozione speciale: è un libro che difende la bontà, le legge e l’intelligenza.

Calaveres atònites

L’ultimo libro di narrativa che ha pubblicato Jesús Moncada è stato Calaveres atònites. L’autore stesso diceva che non bisognava confonderlo con Calaveras atómicas. È uno dei libri migliori di Moncada. In teoria è un libro di racconti, ma presenta un’unitarietà molto chiara. Si colloca al centro del mondo e negli anni Cinquanta: “Se accettava a occhi chiusi che l’antica Mequinensa era per lo meno al centro della galassia, il forestiero intelligente si sentiva subito a casa” è l’incipit del libro, che prende il via con l’arrivo, da Barcellona al paesino, di un nuovo segretario del tribunale. In questo modo vediamo Mequinensa da fuori: accompagniamo il giovane durante il viaggio in autobus (dove i seni di una viaggiatrice quasi lo soffocano), nel suo primo processo (dove viene richiesta la comparizione del Sacro Cuore di Gesù). Mallol Fontcalda impara molto dal giudice Crònides che subito gli consiglia: “Non lavori tanto, signor segretario, lasci stare le pratiche e venga a dare un’occhiata. Guardi, presti attenzione a quella ragazza tanto carina che attraversa la piazza. Non si distragga, mi creda, che dura per poco. In men che non si dica passiamo da embrioni incerti a teschi attoniti”.
I racconti di Calaveres atònites sono i casi che deve affrontare il giudice Crònides. Ad esempio, c’è la rivalità tra due moribondi che vogliono inaugurare il cimitero. O quello di Leucofrina che è talmente cristiana da praticare l’unione mistica con il prete. Dopodiché, viene a sapere che Ambròs se la fa con una francese: “Parliamoci chiaro. Un conto è il coitus, il cunnilingus o la fellatio, in latino, come parte del sublime atto di unione di Cristo con la Chiesa, e un altro praticarli tradotti in catalano, o, nel caso della porca di Chantal, in francese. Sembra incredibile, ma il cambio di lingua li riduce a del sesso immondo, senza palliativi”. La risentita Leucofrina organizza una truffa e un movimento, CAV, Casalinghe in Vaticano. Un’altra delle storie che racconta Calaveres atònites è quella di un padre a cui prende un colpo quando viene a sapere che la vedetta francese e appariscente che gli è seduta in braccio è il figlio che credeva scomparso. E un’altra spiega che i mezquinensiani evoluti ci mettono qualche ora in più a morire, praticamente, fino a che non arrivano alla circoscrizione municipale di Mequinensa, in modo che, guarda caso, le pratiche siano molto più semplici. Un personaggio del libro, che ha una straordinaria abilità con i numeri, contabilizza i coiti con la moglie con i chicchi di riso.
“Comunque sia, qui, signor segretario, l’unica eternità credibile e a portata di mano è la vita quotidiana” dice il giudice. E Calaveres atònites ritrae meravigliosamente una vita quotidiana molto ricca e immaginativa: è pieno di osservazioni impagabili, come quella di Aníbal a Mequinenza, sugli eufemismi utilizzati per comprare i preservativi o le grida proferite dai mezquinesiani nei loro momenti migliori.
Calaveres atònites è un libro di racconti e, allo stesso tempo, un romanzo: compaiono sempre gli stessi personaggi (a volte ce ne sono alcuni apparsi in altri libri di Moncada) e le storie si intrecciano. In Calaveres atònites l’umorismo è ovunque: c’è umorismo nella scrittura, raffinato e pieno di sfumature, e un umorismo selvaggio, grottesco, che mi fa pensare all’estetica del carnevale di cui parla Bachtin e che mi ricorda il mondo di Rabelais e del romanzo picaresco. Calaveres atònites parla della forza della vita, che si impone sulle ideologie e sulle proibizioni, e inoltre costruisce un mondo eterogeneo, eccentrico e molto profondo.
È molto triste che Moncada sia morto così giovane perché sono sicuro che avrebbe scritto libri meravigliosi. Anche perché Moncada era uno scrittore comico, e non ci sono mai abbastanza scrittori comici. Sia i suoi racconti che i romanzi sono esempi di maestria letteraria, di uso del linguaggio e dei tempi della narrazione. Moncada è stato capace di creare un mondo e una manciata di personaggi indimenticabili. Sono stato felice mentre leggevo i suoi libri, soprattutto i racconti e Estremida memòria. Anche se Moncada scriveva da uno spazio molto ristretto e che non esiste più, anche se parlava di fiumi e naviganti e di modi di vivere che ormai ignoriamo, le sue storie trattano di passioni e valori universali, d’amore e sesso, così come delle nostre più brutali contraddizioni, della libertà e della bellezza, della morte e del riso: in qualche modo, parla anche di noi stessi.

 

 

 

 

 

 

 

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