Gli occhi verso il cosmo e i piedi a terra: Voyager di Nona Fernández

Riportiamo, nella traduzione di Gaia Biffi, l’intervista che nel 2019 Dante Trujillo ha fatto a Nona Fernández sulle pagine della rivista Buensalvaje per il lancio del libro Voyager, recente pubblicazione targata gran vía.



L’uscita di Voyager, nel 2019, l’ha colta proprio nel bel mezzo delle rivolte in Cile. Non era previsto che andasse così (niente lo era) e, allo stesso tempo, seguendo lo spirito di questo saggio romanzato, potremmo credere che sì, che un tale esercizio di memoria, approccio scientifico, riflessione e confronto con la realtà non poteva arrivare in un momento più opportuno; invece, tutto è connesso, come nel libro stesso, con la fede riposta nel fatto che forse, dal caos che sta scuotendo la società cilena fino alle fondamenta, potrebbe sorgere una nuova vita, un nuovo racconto, un nuovo Paese.
Da due mesi a questa parte, Nona Fernández (Santiago, 1971) è stata presente in tutti i cortei, in tutti i comitati, ha organizzato iniziative civiche, partecipato ai dibattiti con il collettivo Las Tesis, si è fatta sentire su arte, femminismo, parità, resistenza di fronte alle vessazioni del potere; ha preparato striscioni e articoli di giornale, proprio dal centro nevralgico del conflitto. Contemporaneamente, lavorava al montaggio di un’opera teatrale sul suicidio degli adolescenti e al remake di una sua pièce, El taller, una commedia noir del 2012. Come se non fosse abbastanza, il 18 novembre 2019, durante la visita di Patti Smith nella capitale cilena, la leggenda del rock e della poesia l’ha riempita di complimenti durante una presentazione presso la Cátedra Bolaño. Smith ha chiesto a Fernández di salire sul palco per abbracciarla, non senza prima averla ringraziata per la sua letteratura.
E, in questa congiuntura, è uscito il libro. Il suo ottavo titolo – senza contare la presenza in antologie, opere teatrali e copioni per la televisione – dopo la pubblicazione di La dimensione oscura (gran vía 2018), testo con cui, nel 2017, ha vinto il premio Sor Juana Inés de la Cruz, che riconosce l’eccellenza letteraria delle ispanofone.
Voyager è difficile da classificare: è un memoir, un romanzo, un saggio. È un libro sui segnali dello spazio e sui ricordi, sulla nascita degli astri e degli esseri umani, sulle cause cosmiche, ineffabili, e sugli effetti che la natura ha su ciascuno di noi, mentre ci plasma. In poche pagine, concentra una ricca varietà tematica che va dalla sfera intima a quella politica, da quella famigliare a quella scientifica e viceversa, tutto assemblato in modo delicato, naturale, facendo della digressione uno stile potente e commovente. La voce narrante, pura profondità e intuizione che rappresenta la stessa Fernández, può parlarci dell’origine della vita, di un granchio del Sudamerica, di Giordano Bruno, di un astronomo che si commuove durante una notte nel deserto, dei crimini della dittatura, dell’infame Julio Guzmán, di sua nonna che va a votare per il plebiscito nazionale del 1988, dei ricordi e dell’ottantesimo compleanno di sua madre, e di ciò che toccherà alla generazione di suo figlio. Il libro è stato scritto tempo addietro, a seguito di una proposta della casa editrice, ma è stato lanciato quando sono cominciate le rivolte.
Interrompiamo l’urgenza delle giornate di Nona Fernández per parlare di Voyager e del processo attraverso cui è transitata per scrivere qualcosa di tanto breve quanto intenso, tanto vero quanto necessario, commovente e divertente. Senza alcun dubbio, tra i migliori titoli recenti nella nostra lingua.

L’essere cresciuta durante l’atroce dittatura di Pinochet ricorre nella tua produzione come un rumore di fondo. In Voyager, come nei tuoi libri precedenti, si mescolano la memoria personale con quella collettiva, quella famigliare con quella di ciascuno. Scrivi guardandoti dentro e viaggiando a ritroso, con coraggio, per poi tornare con regali crudeli e allo stesso tempo luminosi. Quanto pesa questo passato?
I ricordi sono come la nostra impronta digitale, un segno d’identità. È lì che ci ritroviamo, in quel mucchio disordinato di specchi rotti che contengono la nostra biografia. Ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza – che sono le tappe chiave nella vita di ogni persona – in un contesto speciale, oscuro, strano. Da allora, ho molti specchi che riflettono istanti confusi. Era faticoso comprendere ciò che stava accadendo perché gli adulti avevano la testa da un’altra parte, perché ci proteggevano con il loro silenzio, o perché non c’erano o non capivano molto. Sono cresciuta pensando che quella mappa incompleta in cui vivevo sarebbe diventata più comprensibile con l’arrivo della democrazia, ma non è stato così. Una democrazia “nei limiti del possibile” che è scesa a patti con molte cose per poter esistere, tra cui una parte della sua memoria. Perciò ne sono rimasta frustrata, con la sensazione che ci fossero episodi della mia stessa vita che mi stavano imprigionando. E ho cominciato, senza nessuna pianificazione, una ricerca basata sulla scrittura su tutto quello che ho vissuto, ascoltato, visto, e che non ha trovato posto nella storia ufficiale. L’ho fatto per vent’anni, rivelando e raccontando quelle vicissitudini che hanno incrociato il mio percorso e che sentivo che meritavano uno spazio di focalizzazione, di memoria. Scrivendole, ho completato il mio specchio personale. La grande storia non è estranea alla nostra storia privata, piccola. Siamo parte di essa, ne siamo coinvolti e abbiamo l’obbligo di dare un apporto a questo album fotografico, di non lasciare che la raccontino né che la scrivano al posto nostro.

Quale consideri che sia l’essenza del libro, tanto breve quanto carico di significati, informazioni e sentimenti?
Le costellazioni sono gruppi di stelle che sono state associate arbitrariamente da qualcuno. Nell’antichità, un occhio ha guardato il cielo, ha visto la forma di un granchio in un gruppo di stelle e, con un filo invisibile, ha unito queste stelle e le ha trasformate in una costellazione che, oltretutto, porta con sé una storia. Il libro segue questa logica. Il mio occhio curioso ha esplorato materiali documentali relativi alla memoria su più di un fronte, neurologico, universale, domestico, storico, scientifico, e li ha organizzati, associandoli, con la forma delle costellazioni. Il filone che mi ha portato lì è stato il ricordo di mia madre. Durante un esame neurologico a cui l’ho accompagnata, le hanno chiesto di evocare un ricordo piacevole per rilassarsi. Quando ci ha pensato, ho visto che un gruppo di neuroni si accendeva nella sua testa per formare una costellazione. Quella è stata l’immagine madre di quest’opera. Da lì, il parallelo stabilito dal libro tra i ricordi e le stelle. E, oltretutto, se pensiamo che le stelle sono cartoline del passato, luci che vengono da ieri per illuminare il nostro presente, allora questo libro è, alla fin fine, un tentativo di disseminare messaggi che vengono da un altro tempo. E sono messaggi inviati da una parte di noi stessi. Il fatto che siamo costituiti di materia stellare non è una novità per nessuno. Allora forse questo libro è un tentativo di captare messaggi che ci stiamo inviando da molto tempo e che per qualche ragione non abbiamo voluto ascoltare.

Voyager combina il saggio con il respiro del romanzo e salta da un tema all’altro, da un dato a un aneddoto, imbastendo il tutto con delicatezza e intelligenza. Era previsto che fosse così, in transito tra i generi?
Mi sento sempre più a mio agio con questi libri ibridi, senza classificazioni possibili, lontano da qualunque etichetta. Stiamo vivendo tempi tanto strani, dove ci viene imposta l’importanza dei limiti in tutti gli ambiti – territoriale, razziale, sociale, politico, di genere –, invenzioni per esercitare un controllo su di noi. Sviluppare questa scrittura ibrida è diventata allora una presa di posizione non solo estetica, ma anche etica. Almeno nel territorio dei miei libri non ci sono muri né frontiere.

Il libro inizia con questo potente passaggio che hai menzionato – le immagini che emergono dall’esame neurologico di tua madre, in cui la vedi ricordare – che dà il via a una serie di allegorie e di riflessioni, tra le altre, il tema della maternità e della connessione tra generazioni vibra tra le pagine. Sei arrivata a un momento particolare della tua vita o si tratta di qualcosa che avevi già intuito?
Credo che il puntare sulla vita e sulla memoria sia sempre stato presente nei miei libri, legato alla maternità e al passaggio generazionale. Ma, senza dubbio, il fatto che mia madre sia anziana e abbia compiuto ottant’anni mi rende sensibile al riguardo. Quando è comparsa la prima immagine, nel momento in cui ho visto il suo ricordo sullo schermo della sala d’ospedale, ho capito che il libro sarebbe stato evocato da lei. La memoria dell’infinito, quella del Cile, la mia, tutte aggrovigliate nella testa volenterosa di mia madre che tutt’oggi oppone resistenza all’oblio. Anche ripercorrere una parte della sua storia come un riflesso della storia di molte donne che si sono fatte la loro vita da sole, senza l’appoggio maschile, prescindendo da esso, mi è sembrato un gesto rilevante. In un momento in cui noi donne stiamo lavorando quotidianamente per democraticizzare la nostra vita in totale uguaglianza, puntare il focus sulla semplice storia di mia madre e sulla sua capacità di azione solitaria e risoluta è un modo per valorizzare la grande energia che hanno le donne.

Un’idea centrale del libro, bellissima, è quella della memoria di tutti già contenuta nell’origine, nelle stelle; un parallelo tra il cosmo e i nostri cervelli, l’infinito e il privato.
Quest’idea ha iniziato ad articolarsi solo quando ho visto l’esame neurologico di mia madre, il punto di partenza del libro. In quell’immagine ho visto l’evidente parallelo tra le stelle e i neuroni che generano i ricordi, tutte luci del passato installate nel nostro presente. Questa doppia dimensione del passato, in scala neuronale nei nostri cervelli e in scala stellare nell’universo, si è intrecciata per riflettere su quello stretto vincolo tra memoria universale e personale. Siamo un capitolo di una memoria che scorre nei nostri corpi da molto tempo e che ci vincola all’universo, perché siamo solo un pezzettino insignificante del tutto.

A proposito, nel libro ci sono molti riferimenti scientifici – c’è astronomia, biologia, storia e molto altro – trattati con spirito divulgativo e al servizio del racconto. Hai fatto un lavoro di ricerca e documentazione oppure avevi già queste informazioni o, forse, un’inclinazione per la scienza?
Carl Sagan, menzionato nel libro, ha avuto una grande importanza per la formazione del mio immaginario, fin da bambina. È con lui che è nata la mia seduzione per la scienza. All’inizio degli anni Ottanta, in piena dittatura, mi sedevo di fronte al televisore per vedere le puntate di Cosmos. Lì esisteva la certezza che potevamo intraprendere un viaggio di conoscenza. Una via di fuga verso un’altra realtà, lontano dalle sparatorie e dal coprifuoco. In quelle avventure televisive, ho capito che il tempo presente era insignificante nel progetto cosmico, che i punti di vista su un tema erano infiniti, e che qualunque sapere era il frutto di una profonda e inarrestabile azione di messa in dubbio. E anche se Sagan parlava di scienza, io sentivo che le sue parole erano un messaggio segreto indirizzato a me, una bambina del Sud che cercava di comprendere lo sgretolato paese in cui le era toccato vivere. Credo che il tono di divulgazione scientifica che ha il libro, e che, naturalmente, è stato frutto di molte ricerche, sia un omaggio a Sagan e a quel talento meraviglioso di rendere semplice e prossimo qualcosa di tremendamente complesso.

Voyager è uscito nel 2019 in un Cile in piena crisi, come se la sua scrittura fosse stata chiaroveggente. Dopo gli anni della paura, ci hanno venduto l’idea di una crescita economica e di un benessere comune come un qualcosa di esemplare; recentemente, ci siamo resi conto della dimensione reale della questione. Quanto è presente il passato?
Dal primo giorno, quando il governo ci ha dichiarato guerra, i nostri occhi hanno cominciato a registrare le immagini orribili che abbiamo visto durante gli anni. Violenza sessuale, botte, maltrattamenti, tortura, vessazioni, perquisizioni, pallottole accumulate nei corpi. Non ci perdonano la contestazione e la protesta. Non ci perdonano le manifestazioni di piazza e gli striscioni. Fino ad ora, ci sono stati approssimativamente seimila detenuti, tremilacinquecento feriti, ventidue morti, di cui cinque per azione diretta dello Stato. Hanno sparato al volto e abbiamo avuto circa duecentocinquanta traumi oculari che hanno portato alla perdita della vista. “Il Cile si è svegliato” è la parola d’ordine. Ci svegliamo tutti insieme, ci lasciamo il letargo alle spalle, apriamo gli occhi come collettività e, dato che vediamo il presente, hanno voluto renderci ciechi. Ma abbiamo memoria, ed è ostinata, e fa da oracolo in questo déjà-vu autoritario in cui circoliamo. Ci danno la colpa esattamente come ieri. Ci dicono ancora che la responsabilità è nostra. Ci accusano di essere tutti dei delinquenti. Condannano la violenza come se non fossero loro, con la loro brutalità sistematica, ad averla incitata. E ci castigheranno. E ci colpiranno in nome dell’ordine pubblico e della pace comune. E domani ci spareranno come oggi. Come ieri. Come sempre. E saranno incapaci di assumersi le loro colpe, come sono stati incapaci di ascoltare le domande dei cittadini espresse per anni e di generare le politiche pubbliche di cui abbiamo bisogno per porre fine a tanta, tanta, tanta frustrazione. È come se non fossimo mai usciti dalla dittatura. Probabilmente, non lo abbiamo fatto. La democrazia è stata solo un miraggio per evitare le nostre contestazioni.

Un altro riferimento del libro su cui ti soffermi è quello del sorgere della vita dal caos. Uscirà qualcosa di buono da tutto quello che sta succedendo, dalla rabbia, oltre al risveglio civile?
Il caos è temuto, sembra essere un luogo impossibile da abitare. Però, se rievochiamo la memoria universale, dobbiamo convenire che questo caos è stata la maniera in cui siamo arrivati a essere ciò che siamo. Nel bene e nel male, naturalmente. Ma la sapienza del caos è quella che ha configurato il mondo ed è stato proprio il tentativo dell’essere umano di dirigere il caos, di montare e promuovere cause rendendosi protagonista ciò che ci ha portati verso un periodo così critico, soprattutto in termini ambientali. La natura è piena di violenza, la violenza da cui nasce, con cui si rompe un guscio, del vulcano che erutta, delle placche tettoniche che si assestano. I movimenti naturali sono violenti e, grazie a loro, il mondo si è evoluto. Ma la brutalità sistematica esercitata dall’uomo è una cosa ben diversa. Il saccheggio costante della terra, dell’acqua, del mare, dei diritti fondamentali degli altri. L’organizzazione del caos per il bene di pochi. Bisogna distinguere la violenza dalla brutalità. E osservare il caos come un meccanismo della sapienza universale che decanta in un divenire armonioso.

Otto anni fa ti sei definita così: “Attrice per piacere. Narratrice per rompere le scatole, per non dimenticare ciò che non deve essere dimenticato. Sceneggiatrice di telenovelas per necessità. Cilena scomoda, e a tratti rabbiosa”. Ti rivedi in tutto ciò? Come ti prendi cura di te stessa affinché il tuo impegno politico-civile non sconfini in un pamphlet?
È curioso, ma devo continuare a riaffermare questa approssimazione di me stessa che non ho nemmeno ponderato molto quando l’ho scritta. E su come non sconfinare in un pamphlet, la verità è che rido da sola perché questo mese di rivolte è stato dedicato esclusivamente alla scrittura di manifesti, pamphlet e sceneggiature di azioni pubbliche. La paternità dei testi è stata mandata al diavolo, qui la penna deve essere utile. Non dico che la letteratura non lo sia, a me ha sempre salvato la vita. Tornerò a sedermi a una scrivania. Ora sono più utile in strada.

Recentemente, a Santiago, Patti Smith – nota fan di Bolaño – ha parlato di te. Ha detto, tra le altre cose, che Space Invaders (finalista del National Book Awards) è il miglior libro pubblicato nel 2019 negli Stati Uniti; ha anche aggiunto: “Mi ha fatto quasi piangere. Me ne sono innamorata così tanto che ho dovuto tornare in libreria per comprarne altre cinque copie”. E ti ha ringraziato per averlo scritto. Com’è stato?
Tremo ancora dopo il mio incontro con lei e dopo le sue parole così generose. Non so se l’abbia elaborato del tutto. Una donna così ispiratrice, a cui ho sempre guardato con molto interesse, e con cui, all’improvviso, sento di avere un contatto. Non solo sono depositaria della sua energia e del suo lavoro, che è il ruolo normale che si ha nei confronti della gente che ammira, ma abbiamo anche un contatto. Contribuisco ad accendere le sue scintille. Wow! È uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto in vita mia.

Una domanda direttamente dal libro: alla fine tuo figlio ha dovuto sopprimere le tre frasi “offensive e intolleranti” del suo discorso sul 5 ottobre?
L’esperienza di censura vissuta da mio figlio nella sua scuola è un modo per rendere graficamente il modo in cui, nei racconti ufficiali, si lasciano da parte le versioni dissidenti. Si cerca una sceneggiatura che non problematizzi, che ci lasci tranquilli, che non proponga nuove letture. Al punto che, persone che si definiscono democratiche, esercitano l’autocensura per non disturbare nessuno. È un’eredità diretta della logica di concertazione degli accordi, in cui si deve portare rispetto e lasciare spazio all’opinione dei militari, degli antidemocratici, di coloro che non hanno rispetto. In quell’esercizio, che si trova nel DNA della nostra società, siamo arrivati fino all’estremo in cui ci troviamo oggi. Abbiamo concesso troppo. Abbiamo lasciato molto spazio a coloro che non rispettano le differenze né le versioni dissidenti in questa logica della prudenza. Razzisti, misogini, classisti, fascisti hanno avuto spazio, senza pudore. Per questo oggi tutte le rivolte sociali ci sfruttano e dopo ci dicono che non si vedeva arrivare. Le idee disconformi ci sono state fin dall’arrivo della democrazia, ma non hanno mai voluto ascoltarle per portare avanti in pace la festa con gli intolleranti. E guarda come siamo oggi. Mio figlio, nel suo microcosmo, ha subìto le conseguenze di questo status quo ereditato dalla Concertazione, che non ha saputo difendere la democrazia e che ha dato spazio a coloro che attentano contro di essa.

E come vivi con lui, e con il resto della sua coraggiosa generazione, ciò che sta succedendo?
La generazione di mio figlio è la protagonista di questa rivolta. Una generazione a cui non interessa per niente la realtà così come gliela stiamo lasciando. Questo si traduce in due sintomi: il primo è che si tratta di un settore molto fragile emotivamente, molto depresso, con statistiche alte di problemi psichici seri e anche con un indice di suicidi molto alto. E un altro settore kamikaze disposto a immolarsi per il cambiamento, senza timore. In entrambi i casi, c’è una negazione totale dello scenario in cui gli viene proposto di vivere. Loro sono stati e continuano a essere la scintilla da cui scaturisce la fiamma. Coloro che ci hanno obbligati e continuano a obbligarci ad aprire gli occhi.

Se fossi una nuova Ann Druyan e se ti incaricassero di inviare nello spazio una capsula con il racconto della nostra umanità, dopo 42 anni dal lancio di Voyager, cosa aggiungeresti?
Bella domanda. Metterei alcune istantanee luminose di questa rivolta. Il miglior volto di un Paese che ha deciso di realizzare un cambiamento importante. Pezzetti dello specchio rotto della nostra memoria attuale con cortei affollati, striscioni di festa, poesie di strada, balli, musica, carri allegorici, assemblee, consigli comunali, statue trasformate in arte moderna, creatività che straborda su tutte le pareti, un’allegria che avevamo dimenticato di avere. E per concludere la lista, invierei una foto che ho visto sul muro di una strada di Santiago che, per me, riassume il grande risveglio che viviamo e che può servire come avvertimento o come messaggio per il futuro: “Non era depressione, era capitalismo”.

Com’è stato l’ottantesimo compleanno di tua mamma?
Molto bello. Con care donne anziane che le facevano una festa a sorpresa.

 

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