Riportiamo, nella traduzione di Carlo Alberto Montalto, il discorso che Nona Fernández ha tenuto il 29 novembre 2017 alla Fiera di Guadalajara in occasione della consegna del Premio Sor Juana Inés de la Cruz 2017, ottenuto per La dimensione oscura (gran vía, 2018)
Da bambina, nel Cile degli anni Settanta e Ottanta, erano tre le cose che mi mettevano una paura mostruosa, assillandomi ogni notte. La prima era il rumore degli elicotteri che sorvolavano il quartiere in cui abitavo. I soldati vagavano per l’oscurità del cielo perlustrando gli edifici nei pressi di casa mia. Non ho mai visto da vicino ciò che accadeva lì, ma la mia immaginazione infantile si scatenava tra le lenzuola del letto ricreando nella mia testa scene terrificanti fatte di inseguimenti e arresti, irruzioni, urla e sparatorie. Purtroppo, la mia mente non si sbagliava poi tanto.
La seconda erano i black-out. Di tanto in tanto, da qualche parte della città, un palo della luce esplodeva e tutto restava al buio. Tenebre, nero assoluto. Allora accendevamo un paio di candele e trascorrevamo la sera così, col peso dell’oscurità sulle spalle, ascoltando una radio a batterie che riportava notizie e aggiornamenti sul black-out.
La terza, infine, è quella su cui voglio soffermarmi in modo particolare in questa serata di festeggiamenti. Si tratta di una paura atavica, ossia quella che ho sempre avuto per le suore. Ho studiato in un collegio, e in ogni angolo dell’istituto ce n’era una. Suor Paulina in classe, suor Consolata in giro per il cortile, suor Judith che leggeva in biblioteca, suor Rosa che vendeva dolciumi durante l’intervallo. Erano tutte gentili e affettuose, ben distanti dall’essere la caricatura del rigore e della severità, eppure i loro abiti scuri e i loro veli mi mettevano a disagio. Quelle teste coperte alimentavano i miei sospetti, immaginavo che sotto quei veli nascondessero qualcosa. Forse una calvizie, una grossa cicatrice, un terzo occhio sulla nuca, o qualche altro tratto inquietante e pericoloso.
Quando, più o meno un mese fa, la voce della cara Laura Niembro mi ha annunciato per telefono che avevo vinto il Premio Sor Juana Inés de la Cruz, la mia testa è stata attraversata da un lungo corteo di emozioni e immagini. In questa sfilata di istantanee impreviste, è riemersa di colpo una scena nella biblioteca del mio collegio, in cui una suora della mia infanzia, suor Dora per la precisione, mi aveva parlato di un’anziana consorella messicana che scriveva poesie. Così aveva detto, “consorella messicana”. Avrò avuto otto o nove anni quando lessi per la prima volta una di quelle poesie. Mentirei se dicessi di ricordare quale, doveva però trattarsi dei primi versi letti in vita mia. Di sicuro Gabriela Mistral me ne dirà di tutti i colori dalla sua tomba, ma se la memoria non mi inganna, è a suor Juana e a suor Dora, non a Gabriela, che devo la lettura dei miei primi versi. E nella gioia dell’annuncio del premio, ho pensato che forse è proprio da quella scena che tutto è cominciato per me, dall’inoculazione di quei versi, e che in fin dei conti si trattava di un paradosso perché le mie paure infantili erano segretamente imparentate a questo riconoscimento alla mia scrittura.
Quale enigma nascondessero le suore della mia infanzia sotto i loro veli, non l’ho mai saputo. Eppure sotto il velo di suor Juana si nascondeva una poesia. I miei sospetti di bambina non erano sbagliati. C’era proprio da intimorirsi. Chissà cos’altro è inquietante e pericoloso come una poesia!
Ho sempre immaginato suor Juana nella tranquillità della sua clausura, nel silenzio della sua cella, in uno spazio interamente consacrato alla scrittura e alla lettura. In questo paradiso, il suo talento e la sua perspicacia non potevano che rafforzarsi, cosa che in effetti è avvenuta. Chissà quanto abbiamo fantasticato noi donne sull’idea di uno spazio stabile e professionale, una cella silenziosa in cui svolgere a tempo pieno il mestiere dello scrivere, senza l’opprimente cliché dell’angelo del focolare, come lo chiamava Virginia Woolf, con la fatica delle faccende domestiche, di una famiglia da mantenere, di un lavoro, ma anche di essere desiderabili. Un paradiso di parole e versi senza costi né sensi di colpa.
Ma della vita di clausura immagino anche l’inferno, la scomodità e l’ingombro degli abiti monastici, di quel velo soffocante sulla testa. Ed ecco che allora torna la paura della mia infanzia. E torna il paradosso. Perché la scrittura, l’allegra e spensierata scrittura è stata, e continua a essere, un’area scomoda per le donne. Scriviamo ancora reclamando visibilità, pretendendo di non essere catalogate, etichettate, di non essere tagliate fuori dai grandi temi, dai grandi dibattiti, dai grandi palchi. Ci fustighiamo ancora col cilicio per tutte le mancanze domestiche e famigliari che commettiamo quando scriviamo. E paghiamo il prezzo di gettarci nel vuoto in questo esercizio pericoloso come la poesia che suor Juana nascondeva sotto il suo velo. E ancora una volta la paura e il paradosso. Perché è a questo che si riduce la scrittura. Alla paura e al paradosso. Di cosa si tratta alla fine se non di immergere la testa e la penna in questa paura, nelle fobie del passato e in quelle future, di pagare il prezzo che la vita ci chiede per aver scritto e poi scostare il velo e guardarle in faccia, provando a scoprire l’enigma, la cicatrice, il terzo occhio. Portare su di noi le colpe e far fronte all’oscurità del black-out, ascoltare di nuovo quei minacciosi elicotteri sopra il tetto di casa, scatenare l’immaginazione e vedere ciò che non abbiamo mai visto?
Sono nata nel 1971, avevo due anni quando c’è stato il golpe militare. Sono cresciuta in quel periodo strano e oscuro che è stata la dittatura cilena, e ho conosciuto il mondo attraverso manifestazioni, elicotteri, funerali e veglie. Faccio parte di una generazione mezzo perduta, che non è stata protagonista di nulla, ma che ha osservato con gli occhi da adolescente e ha cercato di darsi da fare alla sua giovane età. Credo che in fondo siamo un po’ condannati al ricordo. Forse proprio per questo, senza premeditazione, senza intenzione, come un atto organico, ogni mio libro l’ho scritto pensando ai bambini che siamo stati. Risuscito storie che ho vissuto, che ho conosciuto lungo il mio cammino, che ho ascoltato, che mi sono state raccontate, e provo a dar loro uno spazio nell’oggi perché credo fermamente in questa staffetta della memoria. Voglio costruire una memoria che sia collettiva. Non quella ufficiale, non quella impressa nei musei e nei libri di storia. Non quella dei buoni e dei cattivi. Non quella che reca calma e sollievo. Credo nella memoria viva, quella che realizziamo gli uni con gli altri, fatta con i ritagli dei ricordi di noi tutti. Credo in questo mostro temibile e inclassificabile, che reclama e pretende. Perché così sono i ricordi. Ingovernabili, ribelli, capricciosi. Vanno fuori copione, assalgono dal passato e ci fanno capire che il passato non esiste ma è soltanto un’inquietante dimensione del presente.
I pastori nei campi, in quelle zone ancora non del tutto contaminate, conducono le greggi facendosi guidare dalle stelle. Esse indicano la strada da percorrere con le loro luci lontane che non sono altro che bagliori di corpi celesti formatisi milioni di anni fa. La luce di quel passato fa parte del nostro presente, illumina come un faro il nostro futuro. Le stelle ci parlano da sopra le nostre teste. Talvolta hanno il viso dei bambini che siamo stati e che non ci sono più, quelli caduti in uno sciocco combattimento a quindici anni, talaltra hanno il viso dei protagonisti di quei funerali e di quelle veglie cui ho assistito da bambina.
Walter Benjamin annotò nelle sue Tesi di filosofia della storia, scritte nel 1940, quando cercava di attraversare i Pirenei in fuga dalla polizia nazista spagnola che gli dava la caccia in quanto ebreo e marxista, che “nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia”. Tutto merita di essere registrato, tutto serve nel recupero, nel riciclaggio della scrittura e della memoria. Io rubo queste storie che continuano a brillare sopra le nostre teste. E siccome ho una vocazione di medico legale o di medium, mi piace indagare su quei cadaveri, metterli sul tavolo dell’autopsia, ricostruire la scena di ogni crimine, ascoltare le loro voci morte e fare come i pastori, lanciarle nel presente perché facciano da guida. Perché “nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia”.
Il 2 dicembre del 1972, quasi quarantasette anni fa, il presidente cileno Salvador Allende Gossens, proprio qui vicino, all’Università di Guadalajara, fece uno dei discorsi più duri e contundenti della sua breve e interrotta carriera presidenziale. Mentre parlava, si rivolse ai giovani studenti e scagliò una frase così tremenda, e a questo punto così disprezzante, secondo cui “essere giovani e non essere rivoluzionari è una contraddizione perfino biologica”. Parlò, tra le altre cose, dei privilegi dello studente universitario, della sua responsabilità nella storia, del suo necessario compromesso col suo tempo. E io, che vado invocando morti e scene del passato, cito queste parole di fronte a voi, perché ho la fantasia che qualcuno di quei giovani studenti sia qui stasera. E voglio ricordare con lui o con lei quel discorso del passato e spararlo nel presente facendolo passare attraverso la scrittura. Parlare da questo podio, giocando a essere Allende, e chiamare in causa le giovani scrittrici e i giovani scrittori. Spronarli a scrivere bene. Benissimo. Ma a farlo anche con responsabilità storica. Affacciandosi verso questa epoca delirante che è lo scenario in cui viviamo. Abbiamo il privilegio del controllo della penna, creiamo qualcosa che ci esploda in faccia come dinamite e che ci faccia reagire. Essere scrittori e non essere rivoluzionari, anche questa dovrebbe essere una contraddizione perfino biologica. E anche se la scrittura è uno spazio di libertà assoluta, privo di responsabilità, un’altra cosa è ciò che tocca a ogni scrittore. Libertà e responsabilità storica. Suona strano. A qualcuno noioso. A me terrificante. Ed eccolo di nuovo, il paradosso. L’ho già detto, a questo si riduce la scrittura: la paura e il paradosso. Viviamo tempi strani, il Messico lo sa bene. L’America Latina lo sa bene. Forse non siamo mai stati fuori da questo luogo strano e oscuro. Lo diceva Allende quarantasette anni fa, qui a Guadalajara. Dunque come non sentirsi chiamati in causa? È un dovere usare per dinamite una poesia, come quelle che nascondeva suor Juana sotto il suo velo, quella stranezza e quella oscurità che ci copre da secoli.
In Cile tra qualche settimana ci saranno le elezioni presidenziali, e aprendo una parentesi, il pubblico mi scusi, devo invitare i cileni di questa sala a guardare le stelle, ad ascoltare ciò che la loro voce saggia e luminosa ci dice dal passato: Non votate per Piñera. Non votate per Piñera. Non votate per Piñera.
Suor Juana Inés de la Cruz aveva quarantasei anni e cinque mesi quando si spense il 17 aprile del 1695. Morì in una cella del suo convento vittima di un’epidemia di peste insieme ad altre religiose. I suoi ultimi anni, immagino, devono essere stati tristi e silenziosi. Allontanata dai suoi libri, costretta ad abbandonare la sua penna, morta in vita, così penso, a quarantasei anni e cinque mesi, un’età così fertile per una scrittrice, smise soltanto di respirare. Di sicuro, qualcosa in lei era già morto. Oggi, 29 novembre del 2017, trecentoventi anni dopo, mi trovo qui di fronte a voi, con i miei quarantasei anni e cinque mesi, la stessa età che suor Juana aveva quando morì, ricevendo questo premio che porta il suo nome.
Questa coincidenza mi ha sconvolto abbastanza quando l’ho appreso, devo ammetterlo.
Di nuovo la paura e il paradosso.
Spero davvero di non morire di fronte a voi dopo aver letto questo discorso, o per lo meno di non farlo prima di aver evidenziato del tutto questa reincarnazione momentanea che sto sperimentando. Credo sinceramente che sulla mappa celeste della scrittura tutti quanti siamo legati da fili invisibili, in una staffetta di conoscenze e parole, di contenuti e immagini, di luci e ombre, iniziata tanto tempo fa e di cui non siamo che una piccola tappa.
Ho la stessa età che aveva suor Juana al momento della sua morte e qui, di fronte a voi, prendo il suo testimone impegnandomi a vivere anni lunghi e felici, per tutti quelli che lei non ha vissuto. A scrivere, con meno talento, senza dubbio, per tutto ciò che lei ha smesso di scrivere. A leggere tutti i libri che lei non ha potuto leggere. A godere della paura. A godere del paradosso. A togliermi il velo dalla testa, a buttare via il cilicio, a cercare di far esplodere tutto con una raffica di poesie. A essere rivoluzionaria tanto quanto lei ha potuto, e tanto altro ancora. In qualità di medium, con lo spirito immacolato che oggi reincarno per tutti voi, a nome mio e di suor Juana ringrazio la giuria, Cristina Rivera Garza, Daniel Centeno Maldonado, Eduardo Antonio Parra, la Fiera del Libro di Guadalajara e tutti voi presenti, per questo momento luminoso che in questo preciso istante lancio nel futuro sotto forma di stella.
Nona Fernández Silanes
FIL Guadalajara, Messico, 29 novembre 2017