Riportiamo, nella traduzione di Valeria Bonazzi, l’intervista che lo scrittore cileno Álvaro Bisama ha fatto per Qué pasa a Julián Herbert in occasione della sua visita in Cile per presentare La casa del dolore altrui (di prossima pubblicazione presso gran vía), cronaca di un massacro di cittadini cinesi avvenuto in Messico nei primi anni del XX secolo. Una storia poco conosciuta che gli consente di ragionare sul presente, sulla violenza, la politica e la memoria.
Sfogliando La casa del dolore altrui, la narrazione di Julián Herbert (1971) sul massacro di 303 cinesi per mano dei combattenti rivoluzionari presso Torreón nel 1911, il lettore inevitabilmente s’imbatte nello spettro del presente. Herbert, poeta e narratore, nel 2011 ha vinto il Premio Jaén de Novela con Ballata per mia madre, il devastante e meraviglioso racconto sulla morte della madre; in questo nuovo testo si immerge nel passato tentando di decifrare una complessa trama di sangue, xenofobia e confusione. Il risultato è un’indagine che demolisce il funzionamento dell’identità nazionale messicana e rivela la tensione tra memoria e oblio. Grazie alla potente voce narrante dell’autore, il libro si interroga su come raccontare i legami che collegano i fantasmi delle vittime con la città e i suoi simboli. Herbert costruisce un palinsesto interminabile, perseguitando il passato per comprendere come sia stato narrato, esibendone i paradossi atroci e le contraddizioni.
Leggendo La casa del dolore altrui, mi è tornato in mente un romanzo cileno, El empapado Riquelme di Francisco Mouat. Il protagonista si è perso nel deserto, metafora di tutte le persone scomparse in Cile; il libro si articola in diverse storie private, che racchiudono la Storia di un paese intero. Speravi in un risultato analogo quando hai cominciato a pensare o scrivere dei cittadini cinesi?
Assolutamente no. Stavo seguendo alcuni fantasmi dispersi e mai avrei pensato che la storia del massacro avrebbe interessato i messicani, figuriamoci il mondo ispanofono. A un certo punto ho pensato che il libro sarebbe stato pubblicato a livello regionale, a Coahuila, il luogo in cui vivo e dove accaddero i fatti. Il paradosso – e questo lo racconto anche nel libro – risale alla prima volta in cui ho parlato in pubblico della cronaca che stavo scrivendo; ero a Santiago e partecipavo a una conferenza, sotto invito della mia amica Macarena Areco. E quello stesso giorno, al Centro Cultural Gabriela Mistral, dopo aver raccontato di un gruppo di migranti asiatici massacrati e sepolti in una fossa comune nel Nordest del Messico, nel maggio 1911, è iniziata la crisi internazionale dei quarantatré studenti di Ayotzinapa, il caso emblematico di persone scomparse durante l’attuale regime messicano. Trovarmi fuori dal mio Paese in quel momento mi ha mostrato una nuova prospettiva su cosa significasse il massacro dei cinesi: mi ha permesso di vedere in controluce il racconto della violenza e delle impunità storiche. Questo è uno dei tanti regali di cui sono grato a Santiago del Cile: la messa a fuoco del punto di vista dal quale racconto questo libro.
Qual è il tuo legame con il tema della memoria?
Quasi tutto ciò che ho scritto fino ad ora, soprattutto in prosa, ha per oggetto la memoria. Non l’ho mai notato durante la stesura, ma solo quando diversi critici hanno iniziato a sottolinearlo. E sono d’accordo con loro, non scherzo. E non dico di essere ingenuo: semplicemente, certi tratti della scrittura non si palesano perché sono troppo coinvolti. A livello formale e tematico esistono fattori elementari: Cocaína (Manual de usuario) guarda la memoria al presente, in qualità di testimone; Ballata per mia madre affronta la memoria famigliare e intima; La casa del dolore altrui è una cronaca storica narrata in stile gonzo e si occupa della memoria collettiva. Ma questo si scopre a cose fatte, come ingegneria inversa; non l’ho mai saputo mentre scrivevo. Il mio rapporto con la memoria non è un sistema, piuttosto un’intuizione avvelenata, un’ossessione di cui non sono molto cosciente. Preferisco che sia così: io faccio la mia parte, che la memoria faccia la propria.
Com’è cambiata la tua voce narrativa durante questo tragitto? Lo chiedo perché sei un poeta passato alla fiction, e successivamente alla non-fiction.
In realtà mi sono cimentato in generi diversi fin da giovane, il punto è che mi ci è voluto molto per imparare a scrivere in prosa. Il mio primo reportage, un’inchiesta sul fallimento di un’industria siderurgica parastatale nel deserto di Coahuila, l’ho scritto a diciannove anni, e ho pubblicato il mio primo libro di racconti a ventidue. Tuttavia, credo che la prosa abbia trasformato la mia voce: con gli anni è diventata più aspra. In principio mi affidavo eccessivamente all’ironia e alla melodia, ora mi soffermo soprattutto sulla prospettiva. Ciò che non è mutato è il tentativo di avvicinarmi costantemente ai temi e alle strutture dal punto di vista poetico: insomma, è come se non scrivessi altro che poesie. Non perché consideri la poesia un genere superiore, ma perché il mestiere del poeta mi risulta istintivo, è un territorio su cui mi riesce naturale focalizzarmi. Come un pilota.
In questo testo hai lavorato come sempre? Hai letto a voce alta per assicurarti che suonasse al meglio?
Sì, ma con un colpo di scena: il libro raccoglie molte citazioni testuali, molte informazioni documentate, molti interventi orali registrati. Quindi non ho ascoltato soltanto la mia voce, ma anche quella degli altri. Sono stati selezionati diversi passaggi, anzitutto quelli relativi a un personaggio, Tulitas Jamieson, tenendo conto non soltanto dell’informazione o del racconto ma anche della prosodia. In tal senso, La casa del dolore altrui è un testo corale. Ad esempio, nel capitolo sul massacro, ho inserito la testimonianza del console belga a Torreón, che descrive l’assassinio di una vittima cinese, presumibilmente l’ultima, giustiziata da tre rivoluzionari alle undici di sera del 15 maggio. Ho letto questo documento per la prima volta nella sala di consultazione dell’archivio storico del ministero degli Esteri, disturbando tutti coloro che mi circondavano perché, inconsciamente, mi ero messo a leggere a voce alta. Sono venuti a zittirmi, e ho deciso che quel passaggio doveva venire citato testualmente nel libro. È soltanto il frammento di una deposizione giudiziaria, ma lo considero uno splendido paragrafo di letteratura. Diversi altri passaggi nella Casa del dolore altrui sono di questo tipo, ovvero non li ho scritti io: mi sono limitato a raccoglierli.
Che ruolo hanno avuto le testimonianze orali?
Ci sono quattro fonti principali: gli archivi ufficiali, i libri specializzati di storia (cioè quelli scritti da accademici), i libri di microstoria (molti dei quali raccolgono fonti orali) e le interviste, anch’esse fonti orali, ma ancorate al presente. È stato un sollievo non essere uno storico professionista: ho potuto accedere a fonti screditate, come lo storico amatoriale Manuel Terán Lira (che negli ambienti intellettuali di Torreón è conosciuto come “Mentirán” Lira) che commette una miriade di errori storiografici, ma che ha intervistato i testimoni oculari del massacro e racconta aneddoti molto interessanti, ad esempio come hanno partecipato ai linciaggi i bambini dell’epoca, o come i cani della città sono sopravvissuti durante l’assedio delle truppe rivoluzionarie. L’oralità è una fonte screditata quando parliamo di storia, è sempre carica di finzione. Per esempio, oggi la maggior parte degli abitanti di Torreón pensa che a uccidere i cantonesi sia stato Francisco Villa: impossibile, poiché durante il massacro stava prendendo Ciudad Juárez. Ma, come tutti sappiamo, la finzione comunica verità più profonde della Storia: verità politiche. A parer mio, le testimonianze orali raccolte nel libro assolvono a questa doppia funzione: creare un’atmosfera attorno ai fatti e mettere in dubbio la “verità storica”. Ho scritto una cronaca minuziosa e ben documentata, ma opinabile: l’oralità, da un punto di vista retorico, è come il coro del teatro greco. Devo aggiungere che non mi è stato possibile ritrarre Torreón – una città adolescente, ma dalle mille maschere −senza ammirarla con soggettività: con odio e amore.
Nelle morti del passato cercavi una giustificazione alle morti del presente. L’hai trovata?
Non lo so, e ti dirò: è un discorso che a volte mi tormenta. Non sono un moralista, ma nemmeno un cinico, e confrontarsi con una storia come questa ti mette faccia a faccia con le tue stesse intolleranze: mentre scrivevo, mi sono reso conto di quanto maschilista, omofobo, razzista e sciovinista sono stato in alcuni momenti della mia vita. Questa, semmai, è l’unica lezione morale e ideologica che ho trovato nel libro. Il resto è semplice: non sono un giustiziere, ma un uomo che racconta storie, niente più. Con soggettività, con passione, con emozione, con quel briciolo di talento che ho, ma alla fine soltanto un uomo che racconta storie. L’analogia con i morti del presente in Messico è chiaramente politica, ma anche di indole estetica: è un espediente per dare al racconto una dimensione tragica. Ma insisto, è un espediente: una dimensione della retorica.
“Ho scritto questo libro come chi cerca di restaurare una vecchia pellicola cinematografica per comprendere il senso di un singolo fotogramma”, hai scritto. Ci sei riuscito?
Spero di sì. Secondo me l’eroe tragico di questa storia è J. Wong Lim, un medico cinese residente a Torreón che non è stato assassinato durante il massacro, ma che in quei tre giorni vide distrutto il senso della sua esistenza. È praticamente l’unica voce documentata che è riuscita ad arrivare fino a noi, e poter ascoltare la voce di un sopravvissuto è un tesoro. Trovo che la voce di Lim (conservata grazie a una deposizione giudiziaria) abbia cambiato definitivamente il senso retorico della tragedia. D’altra parte, questo passaggio della storia così cinematografico, nel quale un uomo a cavallo lo salva dalla folla che cerca di linciarlo mentre è rinchiuso in un’automobile, mi ha dato una delle chiavi strutturali del libro: mi sono reso conto che dovevo scriverlo non come un racconto storico, ma come un documentario cinematografico, utilizzando i frammenti di informazione reperiti negli archivi come filmati di vecchie pellicole, trasformando la narrazione in prima persona in una voce fuori campo, che d’improvviso appare fisicamente sullo schermo.
Raccontare la violenza ti ha impressionato? Sto pensando al macabro frugare nelle scarpe dei cadaveri in cerca di denaro, o all’irruzione nella casa di Lim, che successivamente diverrà il Museo della Rivoluzione.
Mi ha impressionato di più narrare l’impunità. La violenza è un buon catalizzatore narrativo, l’impunità no.
Te lo domando perché La casa del dolore altrui colloca il massacro dei cittadini cinesi nella dimensione di un mito della fondazione. Credo che una delle grandi virtù del libro sia questa: leggerlo in forma di mito, leggerlo da lontano, pensando alla fragilità come forma di orrore.
Mi lusinga questa tua lettura, ma non l’ho mai pensata così. Sono stato a Torreón (che si trova a 180 km da casa mia) con l’intenzione di scrivere un’inchiesta per una rivista. Desideravo intervistare i tassisti della città e chieder loro cosa sapessero sul massacro dei cinesi. Ho trovato aneddoti sconvolgenti, alcuni dei quali sono stati inseriti nel libro. Inoltre, uno dei tassisti mi ha parlato di un testo classico della letteratura messicana (La fiesta de las balas, di Martín Luis Guzmán), paragonandolo a Pancho Villa, a Torreón e al massacro; ho trovato il racconto innescato nella psiche collettiva, ma d’altra parte era stato dimenticato dalla storia ufficiale. Ciò che mi è successo dopo questa prima indagine è ciò che talvolta succede, fortunatamente, a tutti i narratori: all’improvviso ho trovato un racconto che era più potente, più grande delle mie aspirazioni. Ho tentato di mantenermi all’altezza di questo racconto, per questo motivo credo che sia il testo meno “letterario” tra quelli che ho scritto: ho tentato di dargli piuttosto le sembianze di un’inchiesta. Ovviamente ci si propone sempre di scrivere un testo, e il libro che ne risulta è tutt’altro.
Nel finale hai inserito un poema di Edgar Lee Masters, tradotto da Salvador Novo. È un testo demolitore, e mi ricorda l’idea che aleggia in Antologia di Spoon River, il libro di Masters: il poeta è colui che passeggia sulle tombe dei defunti raccontando le loro storie.
Il poema s’intitola Silenzio. L’ho messo a fine libro come una sorta di lapide collettiva per i 303 cinesi massacrati a Torreón nell’arco di un anno e mezzo, lo stesso tempo che mi è servito per scrivere La casa del dolore altrui. Sono diventati i miei avi, la mia famiglia. Concordo con l’immagine che hai descritto del poeta tra le tombe: la vera giustizia poetica si riscontra nel luogo in cui non è più possibile alcuna classe di giustizia. E questo è il cimitero.
Infine, come tornerai alla fiction o alla poesia dopo un libro simile?
Sedendomi nuovamente davanti alla macchina per scrivere, non c’è altro modo. Sono dell’idea che ogni libro scritto celi in sé un proprio genere, una struttura più o meno autonoma. Mi piace l’idea che i generi letterari esistano, ma preferisco credere che tali generi siano forme fluide di conoscenza. Ho smesso di scrivere poesia nel 2013, quando mio figlio più piccolo aveva tre anni e stava apprendendo il linguaggio; ho riversato in quel bambino tutta la mia esperienza poetica. Nel frattempo ho divorziato, mio figlio ha quasi sette anni e sta per andare a vivere in un’altra città con sua madre. E voilà: torno a scrivere poesie. Per me scrivere è una disciplina quotidiana, un atto di volontà, ma anche una passione. E l’unica modalità che conosco per mantenere questa passione è lasciarle fare ciò che preferisce. Anche distruggerti.
[Traduzione di Valeria Bonazzi]