Il problema dei tre corpi di Aniela Rodríguez

Proponiamo, nella traduzione di Gaia Biffi, l’articolo che Tania Hernández Cancino ha dedicato sulla rivista Criticismo a Il problema dei tre corpi di Aniela Rodríguez, la scrittrice messicana da poco selezionata dalla rivista Granta tra i 25 migliori giovani scrittori in lingua spagnola.



“La logica dei sogni, la maggior parte delle volte, è una stronzata”. Questa affermazione, alla quale chiunque abbia mai sognato concederà di buon grado la massima  inconfutabilità, viene espressa dal narratore di “Scatola di fiammiferi”, il racconto che ci introduce nel mondo de Il problema dei tre corpi  di Aniela Rodríguez (gran vía 2021, n.d.r.), come preambolo di un’altra verità solida come un tempio: “[nei sogni] uno viene a sapere certe cose, ma mai il perché”. Acuta per la sua franchezza e divertente perché si esprime in modo grossolano, la vasta grammatica del nostro inconscio rimane così condensata in una sola legge, diciamo universale, e coronata da una salutare, necessaria e, soprattutto, perturbante dose di stranezza. Che cosa nasconde l’inafferrabile perché?

Isaac Newton, che ha regalato al mondo la tranquillità di sentirsi con i piedi ben saldi a terra dopo aver scoperto la forza di gravità, ha anche tramandato ai matematici un inquietante problema che, dopo più di trecento anni, non è ancora stato risolto, o almeno, non in modo preciso: quel problema, quello dei tre corpi, che resta pur sempre un sottoinsieme di quell’indecifrabile perché? generale, tanto ampio e indolente nei confronti della vita come la pianura rulfiana o l’universo stesso. Newton, a cui non è bastato descrivere la legge di gravitazione universale, ha pensato bene di domandarsi come si potesse prevedere il movimento di tre corpi di posizione e velocità note se su di loro veniva esercitata solamente la loro reciproca attrazione. In quel caso la Terra, il Sole e la Luna, ma facciamo un esempio anche con altri corpi: come orbitano tra loro due adolescenti e la vedova il cui cortile, come un buco nero, inghiotte le palline da tennis dei ragazzi allo stesso modo con cui attrae tutte le api del quartiere? O un marito risentito che si dirige, pistola alla mano, ad affrontare il prete che ha messo incinta sua moglie, mentre questa si tira su la gonna ed è disposta a rovinarsi la vita per altre sette volte, se ne ha voglia? E che dire di un sicario che nega l’ultima volontà del suo capo narcotrafficante – ucciderlo nel pieno di un’imboscata del nemico –, delle silenziose figure a cui si confessa e del capo che rimane in agguato alle sue spalle per vendicare il suo rifiuto? La matematica attuale non dispone degli strumenti necessari a prevedere tali interazioni in modo inequivocabile, ma la letteratura può continuare a giocare inventandosi la risposta.  Quale sarà l’orbita di un rapinatore da strapazzo mascherato da Batman che, impazzito, valuta se rimanere fedele alla sua compagna, che non è nemmeno tanto affascinante, o al suo complice, se la velocità iniziale è quella di un “matto” e le sue coordinate lo collocano in una farmacia che potrebbe essere qualunque farmacia?

Dopotutto, nemmeno le voci degli scrittori sfuggono alle leggi della fisica classica. Juan Rulfo è, nell’universo della letteratura messicana, un oggetto massiccio il cui colossale campo gravitazionale continua a esercitare attrazione sui restanti corpi dello spazio. Nel caso concreto di Aniela Rodríguez, si intuisce un Rulfo aggiornato non tanto nel contenuto ‒ seppure anche in quello; tuttavia, la violenza, la morte e gli individui abbandonati da Dio difficilmente cederanno il loro scettro nella letteratura di un paese come il nostro: e oltretutto, sarebbe bello se trovassero posto solo nella letteratura ‒, bensì in quella zona dove subentrano l’accettazione della morte, dell’abuso e delle sordide strutture sociali che, più che funzionare come sostegno alla vita, sono gli strumenti della sua distruzione. In Rulfo, uno di questi spazi è l’attribuzione di un comportamento animale agli elementi inanimati della natura. Questi, indifferenti alle sofferenze della Patria, cercano solo di sopravvivere alla stregua di uomini ingannati e dimenticati, come la Pianura che, arsa dalla sete, si beve una goccia di pioggia nel racconto “Ci hanno dato la terra”. La Pianura viene presentata come un animale contro la cui natura non possiamo nulla. Il Paese, che dovrebbe prendersi cura della vita, la getta invece tra le fauci di una bestia piatta incapace di allattare se non sé stessa, e la cui natura non la spinge a divorare la preda ma a lasciarla rinsecchire sulla sua lingua ardente. Ne Il problema dei tre corpi non esiste una geografia chiara ‒“potrebbe essere una città come un’altra, invece è la nostra”‒, non tutti sono contadini o abitanti di paesi fantasmagorici (nei paesi di Rodríguez, di tanto in tanto, si affaccia anche qualche turista), ma la fortuna dei suoi personaggi è anche “ridotta ai minimi storici”: conoscono e accettano il loro tragico destino alzando le spalle al cielo e senza hybris, mentre resistono ai colpi del vento ‒ come elastiche pannocchie di mais ‒ fintanto che è possibile. Ma non sono corpi né menti immobili. Lo spazio che Rodríguez confeziona per i suoi personaggi perché attendano l’inevitabile ‒ “non c’è scampo… manca poco che qualcuno apra la finestra e si metta a guardarci, aspettando il momento giusto per gettare la cicca”‒ è il movimento circolare che l’arcolaio delle Moire necessariamente descrive.

Il filo conduttore che attraversa Il problema dei tre corpi dall’inizio alla fine è l’accettazione della morte. Questo libro di racconti ‒ quasi tutti ‒ circolari, si apre con un incendio spettacolare e prende velocità con uno sparo che tarderà a raggiungere la propria vittima, il tempo necessario perché si sviluppi la storia e i lettori intravedano l’entrata all’inferno; riprenderà il ritmo a colpi di pugnale e sognerà di vincere la gravità nel corpo di uno sfortunato muratore che agonizzerà per giorni in un letto d’ospedale mentre vola verso il momento della propria morte. È anche un libro in cui si muore aspettando, o di tristezza perpetua, o buttandosi nel pericolo strafatto di coca o, perché no?, per mano di uno scienziato pazzo, ossessionato da un’equazione irrisolvibile. I personaggi di Rodríguez accettano la morte non come un destino terribile imposto dagli dèi della disuguaglianza o dello sfruttamento, ma come il terreno in cui si manifesta la vita. In questo universo sì, c’è quel pochino di terra “di cui il vento avrebbe bisogno per giocare ai mulinelli”, come scrive Rulfo in “Ci hanno dato la terra”. Non è molto, ma è quello che c’è. I personaggi camminano sul filo della propria vita allo stesso modo dei funamboli o dei muratori che deambulano sull’impalcatura. Non lo fanno per sfidare la morte, che, paziente, li aspetta di sotto, ma perché quello è tutto ciò che si può fare, come ha bene inteso il prete ucciso da Jacinto, a cui è bastato ricevere un proiettile per capire “che il cielo è un’invenzione dal cazzo”.

È quel tremore di corpi, conseguenza ‒ e a volte causa ‒ di equilibrio, la più pura manifestazione della vita ne Il problema dei tre corpi. E i corpi continueranno a vibrare, sicuramente fino a che non verrà fatto un passo falso, sicuramente fino a che le Moire non taglieranno il filo. “Nei sogni, le persone lo sanno da subito che stanno per morire”, chiarisce il narratore di “Scatola di fiammiferi”. Perché ‒ e a quale scopo ‒ moriamo? Chi può dirlo. A questa domanda non si può rispondere in nessuna lingua. Prima che i compagni di Elías ‒ il protagonista di “Istruzioni per perdere le scarpe”‒ lo  scoprano disteso a terra e addormentato nel proprio sangue dopo aver subìto una caduta  durante la giornata lavorativa, questo già “aveva smesso di capire la lingua degli uomini, ora apparteneva al regno di quelli che aspettano”. Di questo regno fa parte anche la letteratura, che non è esattamente il linguaggio degli uomini, e nemmeno una reinterpretazione, piuttosto il suo contrario, il dormiveglia in cui si dice ciò che non si può o non si sa come dire. Non è che la dialettica dei sogni sia di per sé assurda, ma risulta svuotata di significato nel momento in cui viene tradotta alla veglia. È “una di quelle lingue che esistono soltanto nell’inconscio e che, una volta fuori, servono solo a biascicare stronzate”. Come ciò che non si menziona mai, ma che dà coesione e significato alla finzione.

 

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