L’ultimo gesto, di Juan Villoro

Condividiamo il ricordo che di Sergio Pitol, scomparso a 85 anni lo scorso 12 aprile, ne dà lo scrittore Juan Villoro con un articolo apparso su Reforma



Ho conosciuto Sergio Pitol il 7 marzo del 1980, giorno in cui è morto uno dei suoi migliori amici, lo scrittore e cineasta Juan Manuel Torres. Erano entrambi di Veracruz e avevano vissuto in Polonia nello stesso periodo. Ci incontrammo in un caffè della Colonia Juárez per parlare della nostra partecipazione al ciclo di conferenze intitolato “Incontro di generazioni”, organizzato dalla scrittrice Julieta Campos; il programma prevedeva l’intervento di autori consacrati che avrebbero letto alcuni testi insieme a esordienti. Come racconta in El arte de la fuga, Pitol pensava che i suoi quarantasette anni lo classificassero ancora come celebre sconosciuto. Aveva trascorso buona parte della sua vita all’estero e per quasi dieci anni si era dedicato più alla traduzione che alla scrittura. Inoltre, i grandi protagonisti della letteratura sono morti e qualcuno con meno di cinquant’anni è in genere identificato come “giovane promessa”.
«Ho cominciato a invecchiare per colpa tua!», commentava ricordando la conferenza che lo convertì in decano da cattedra senza consacrazione.
Nel 1980 Sergio viveva a Mosca e in quei giorni alloggiava in un appartamento ammobiliato della Colonia Juárez. Ero preoccupato perché  fra i conoscenti godeva di un’aura mitica. Aveva vissuto in Cina, Polonia, Jugoslavia, Inghilterra, Ungheria e Spagna. Condizione itinerante che raggiunse un punto di svolta a Barcellona. Lì Sergio scoprì che le navi cargo affittavano alloggi a prezzi simbolici e decise che quello sarebbe diventato il suo “ufficio”. Sbarcava con libri scritti in polacco, francese, italiano o inglese, e li riportava in alto mare tradotti nel migliore spagnolo. Quando Witold Gombrowicz ottenne il Premio Formentor nel 1967, la giuria premiò in forma implicita anche il suo encomiabile traduttore, Sergio Pitol.
Non contento di essere traduttore da quattro lingue, nel 1980 Pitol imparò il russo. Il poeta Rafael Vergas, un mio amico, conosceva già Pitol e gli chiesi di accompagnarmi nel caso mi fossi fatto prendere dalla timidezza, calvario che mi ha perseguitato per anni.
Quando arrivammo al caffè, Sergio fumava un sigaro e finì il cappuccino in un sorso. Ci accolse con impagabile cortesia, parlò velocemente del ciclo di conferenze, fece qualche commento su un testo che gli avevano mandato dietro sua richiesta, chiese un altro cappuccino insieme al conto, e con insolito acume disse che Juan Manuel Torres era morto in un incidente d’auto. Si rammaricò che l’autore del romanzo Didascalias avesse abbandonato le lettere per il cinema, elogiò il racconto El mar e parlò di un incidente che aveva avuto in Polonia e che lo aveva quasi ucciso.
Lo accompagnammo al funerale, sorpresi dalla compostezza con cui dominava le emozioni: tornammo a parlare della cosa anni dopo e mi disse: «Ho voluto molto bene a Juan Manuel». Dopo una pausa, chiarì che il miglior modo di omaggiare un amico è difendere, anche nei momenti peggiori, l’allegria, l’affetto e l’intelligenza di cui gli altri hanno potuto beneficiare.
Da autore periferico, Pitol si convertì in figura centrale della letteratura in lingua spagnola. Ottenne il Premio Herralde per il romanzo La sfilata dell’amore (gran vía, 2016, n.d.t.) e la cosiddetta “Trilogia de la memoria” (El arte de la fuga, El mago de Viena e El viaje) consolidò la sua originale traiettoria letteraria. Nel 2005 gli fu conferito il Premio Cervantes per il singolare percorso inaugurato dai suoi libri e per le traduzioni con cui diede impagabile voce ad altri.
Lo vidi per l’ultima volta il 13 novembre del 2017. Laura Demeneghi, la nipote, mi aprì le porte di quella casa a Xapala dov’ero già stato tante volte. Sergio ascoltava musica seduto in una poltrona, vestito con la consueta eleganza (cappello in tweed, pantaloni di fustagno, calzini a rombi). Non poteva parlare e forse non capiva del tutto quello che gli veniva detto. Gli parlai con lo stesso nervosismo che avevo provato nell’incontrarlo la prima volta. Sorrise. «Ti riconosce» mi disse la nipote. Impossibile esserne certi. Il mio maestro aveva smesso di parlare e di scrivere, ma aveva conservato qualcosa di più importante, il segno che ha definito la sua vita: l’empatia che gli ha permesso di attraversare il dolore con una felicità ribelle.
Mi sono venute in mente le frasi del suo ammirato Henry James: “avanziamo nell’oscurità”, “facciamo quel che possiamo”, “il resto è la follia dell’arte”. Negli scaffali di una libreria, di fronte a lui, c’erano le sue opere, pubblicate in diverse lingue, il suo persistente contributo “alla follia dell’arte”. L’ultima lezione del mio maestro è stato questo gesto: un sorriso pieno, generoso, meritato.
[Traduzione di Annalisa Proietti]

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